Com’era prevedibile il film Yara, dedicato alla tragica storia della ragazzina scomparsa e poi ritrovata morta in un campo a Brembate di sopra (Bergamo), nel 2010 a 13 anni, attira l'attenzione del pubblico. Fin dall'esordio, il 5 novembre 2021 è stato diffuso sulla piattaforma Netflix, è un contenuto visto e discusso.
Un film didascalico, con al centro una Isabella Ragonese e un Alessio Boni che hanno fatto il loro come ci si poteva aspettare, ma che non ha nulla del grande affresco che il regista Marco Tullio Giordana aveva dedicato alla Meglio Gioventù, né la forza dei Cento passi, due precedenti che hanno a che fare con la carne e il sangue della storia italiana, ma alla giusta distanza.
In questo caso l’impressione è che il risultato sia un film (sembra quasi un docufilm) che verrebbe da definire “trattenuto”: un regista consapevole e sensibile come Giordana si è reso conto certo che non ci si poteva lasciare andare, in una materia così drammatica, così recente, ancora così drammaticamente urticante sulla pelle di quattro famiglie (la famiglia di Yara; la famiglia d’origine di Massimo Bossetti condannato con sentenza definitiva all’ergastolo per l’omicidio aggravato della ragazzina; la famiglia che si è costruito, è padre di tre figli; e pure quella ignara e sconvolta dall’indagine del suo padre naturale): una vicenda per cui tante persone, anche minorenni mentre gli eventi narrati si consumavano, stanno ancora soffrendo e nella quale, probabilmente, è impossibile da implicati in qualsiasi ruolo trovare pace. Serviva la giusta distanza, la distanza della storia, ma a dieci anni appena abbondanti dalla scomparsa di Yara (è stato diffuso al cinema il 18 ottobre 2021) e a tre dalla sentenza definitiva, questa distanza non c’è, né potrebbe esserci.
Alla base delle vicende descritte nel film, per quanto possibile in una sintesi da 96 minuti, c’è il succo di quanto accertato per via giudiziaria: se è vero infatti che la vicenda narrata è soprattutto un flash back su un’indagine complicatissima e a lungo contestata anche dalla politica, è un poco fuorviante asserire, come si è fatto in questi giorni, che si racconta solo l’ipotesi del Pubblico ministero (la Pm Patrizia Ruggeri interpretata da Ragonese è di fatto la protagonista del film), perché nel frattempo quell’ipotesi è passata al vaglio di tre gradi di giudizio ed è stata confermata, senza mai essere riformata, in tre sentenze: corte d’Assise di Bergamo, corte d’Assise d’appello di Brescia e corte di Cassazione. C’è stato anche un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’ergastolo ma è stato dichiarato inammissibile, dunque sarebbe più corretto dire che il film è stato scritto, su quanto stabilito dalla sentenza passata in giudicato, rispecchiando a grandi linee ma abbastanza fedelmente, la ricostruzione che la legge italiana ritiene accertata al di là di ogni ragionevole dubbio, cosa che non implica la pretesa, forse impossibile, che vi si rassegnino il condannato, che si è sempre proclamato innocente, e la sua difesa, che ancora sta esplorando tutti gli spiragli legali disponibili per accedere ai reperti dell'indagine nella speranza di trovarvi uno spunto da cui chiedere la revisione.
Il film non nega i tentennamenti avuti dall’inchiesta, come l’arresto di Mohammed Fikri, 22 anni nel 2010, inizialmente sospettato a causa di una frase tradotta in prima battuta erroneamente dall’arabo. Accenna soltanto alla forte e sovente distorsiva eco mediatica avuta dalla vicenda, fin troppo arata dalla Tv. Ma fa capire che dentro le aule non si è dato spazio alla confusione di fuori: è vero il fatto che il video del furgone – incautamente montato a uso mediatico – ha dato spago, discutibilmente, al processo mediatico ma non è mai entrato, correttamente, agli atti in quello vero. Ed è vero il fatto che la presidente della Corte d’Assise di Bergamo non ha ammesso, per non dare adito alla giustizia spettacolo, le telecamere neppure alla lettura del dispositivo della sentenza, l’atto scarno con cui si dà con una formula standard conto della decisione di assoluzione o di condanna.
La ricostruzione di Giordana entra senza andare troppo a fondo, forse nel tentativo di non invaderla troppo, nella sfera personale di Yara e della sua famiglia, di cui prova a ritrarre il dolore composto e riservato che abbiamo anche ammirato negli anni delle indagini e del processo. Si intuisce che quello del regista e degli autori è stato un intento di rispetto, ma si sa che, data la materia, non può essere che una pia illusione.
Il risultato è un film a tratti freddo, che in parte rende l’idea della complessità dell’indagine e per sommi capi fa capire l’esito scientificamente difficile da smontare delle sue risultanze, lasciando in superficie il dramma delle persone coinvolte. Alla fine si resta con un senso amaro di intempestività: si termina la visione con la sensazione che le ferite ancora fresche di troppe persone dovessero prevalere. L’arte sarebbe potuta venire, forse, a tempo debito. Dopo le cicatrici.