«La ringrazio, perché ha avuto rispetto per il mio dolore e la pazienza di ascoltarmi. Ero emozionata, ogni volta che parlo mi fa male nell’anima... Divisa sempre a metà: papà yemenita, mamma italiana, io musulmana nata a Perugia. Il mio cuore in due mondi, troppo distanti in tutti i sensi. Sono tornata per rimanere nello Yemen nel 2012, all’inizio della cosiddetta primavera araba. Ma oggi mi chiedo: lo Yemen felice lo sarà ancora? Tornerà a esserlo? Vorrei che tutto il mondo venisse a sapere ciò che sta succedendo qui: fame, miseria, paura, orrore, incertezza del domani. Il bellissimo Paese che ho trovato nel 2012 non c’è più. Ora si respira la morte e la paura. Quante persone innocenti sono state uccise... I bambini, queste piccole creature che muoiono di bombe, di fame, di malattie che erano ormai scomparse da tempo… in ospedali senza medicine… Abbiamo perso tutto, ma nonostante tutto cerchiamo di resistere. Sono state bombardate case, scuole, strade, ponti, ospedali, centrali elettriche, centri commerciali. Lo Yemen, patrimonio mondiale dell’Unesco, Sana’a la Venezia del deserto. Andiamo al lavoro, dobbiamo farlo anche per sperare che domani sarà migliore. Il mondo deve sapere, basta con questa omertà, questo silenzio. Vorrei far arrivare la mia voce a tutti, al mondo intero. Noi siamo qui, abbiamo bisogno di tutto. L’Italia è la mia seconda casa, è nel mio cuore, e vado fiera della mia metà perugina. Il popolo italiano è un popolo generoso. Lo scriva: aiutateci! Aiutate chi muore di fame, chi sta male, chi muore di freddo, chi è senza tetto perché è stata bombardata la sua casa, o perché è sfollato. Aiutateci, nel modo che riterrete possibile. Anche soltanto facendo sapere cosa sta accadendo qui. Per prima cosa vorrei che i potenti della Terra fermassero questo massacro. Basta morte. Basta terrore. Basta guerra».
Un lungo messaggio, arrivato appena pochi minuti dopo una difficile e disturbata telefonata Milano-Sana’a. All’altro capo del filo Faty El Ghirbani, una giovane italo-yemenita che faceva la stilista, finché la guerra non l’ha costretta a fermarsi («I miei uffici sono stati danneggiati dalle esplosioni», dice, «e ho chiuso. Ora lavoro all’Ufficio di promozione turistica come legacy manager»).
Faty, come tutti gli yemeniti, vive dal marzo 2015 le conseguenze di una delle guerre più dimenticate e sanguinose del pianeta, che oppone la fazione degli Houti (che appoggiano l’ex presidente Ali Abdullah Saleh) alla potente coalizione guidata dall’Arabia Saudita che sostiene il suo successore Abd Rabbuh Mansur Hadi: 22 mesi di conflitto, per il quale le Nazioni Unite hanno reiteratamente chiesto il cessate il fuoco e denunciato gravissime violazioni dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra. A pagarne il prezzo, come sempre, i civili, intrappolati, senza via d’uscita. Le ultime cifre parlano di 10 mila vittime, un milione e mezzo di sfollati, 21 milioni (l’80% della popolazione) di persone che necessitano di aiuto umanitario, di cui quasi 14 milioni ridotti alla fame e oltre 20 milioni che non hanno accesso all’acqua potabile. Un Paese al collasso. Lo sterminio di un popolo, nel silenzio più totale della comunità internazionale.
In questo quadro spaventoso si leva la flebile voce di Faty, attraverso un traballante collegamento telefonico: «Nei primi mesi della guerra», dice, «i bombardamenti erano continui, giorno e notte. Adesso ci arrivano solo i bagliori e i fragori dalle montagne intorno. Cosa significa vivere da due anni sotto le bombe? Si respira la morte. Usciamo la mattina, facciamo le cose che dobbiamo fare tutti i giorni, ma non sai se la sera sarai ancora viva. Vivi nel terrore, e giorno dopo giorno ti abitui al terrore».
Il padre di Faty, Abdulwahab El Ghirbani, è pediatra. Si è laureato a Perugia: «La situazione è catastrofica, specie per donne e bambini», spiega. «Non ci sono medicine. E compaiono nuove malattie. Ora anche il colera. In Yemen, il 60% della popolazione è costituita da minori. Il distretto di Taiz, nel quale io sono direttore della Mezzaluna Rossa, ha un bacino di 3 milioni di persone, il più popoloso del Paese. Lei può immaginare cosa significa. Ci sono alcune organizzazioni umanitarie, ma riescono a fare troppo poco rispetto agli immensi bisogni».
«Solo nelle ultime settimane abbiamo registrato quasi 3 mila famiglie di nuovi sfollati», continua il pediatra. «Diamo loro coperte, un po’ di cibo. Ma la situazione è troppo grave. Facciamo il possibile, ma occorrerebbe fare l’impossibile. Ormai è fame, soprattutto per i bambini. La malnutrizione continua ad aumentare. E non abbiamo i mezzi per fronteggiarla».
PS. «Oggi c’è stato un nuovo massacro di donne e bambini». Mentre scriviamo, arriva questo messaggio da Faty. Si riferisce a un raid americano, il primo dell’era Trump.