Il 2014 è stato il suo anno da ironman
(3,86 km di nuoto, 180,2 di handbike,
42,195 di carrozzina) ma non chiamatelo
“uomo di ferro” (traduzione
alla lettera) perché ride. Parola d’ordine
sdrammatizzare. Diversamente
non sarebbe Alex Zanardi.
- Vabbè che conduce una trasmissione
che si chiama Sfide, ora che è “di
ferro” a che materiale ambisce?
«Le sfide si vincono solo se hai voglia
di fare quello che serve prima di
tentarle. Non ci sarebbe stato Maradona
senza il bambino che scavalcava la
rete del campetto per andare a giocare
da solo. La mia fortuna è poter fare le
cose che mi piacciono, il fatto che mi
abbiano portato a vivere qualche pomeriggio
di gloria è un piacevolissimo
valore aggiunto. Poi, certo, per narcisismo,
tra due sfide egualmente appassionanti,
scegliamo tutti quella con in
fondo il pubblico che applaude».
- È complicato essere percepiti come
simboli?
«No, perché non avverto il dovere
di rappresentare qualcosa per qualcuno.
Non me ne sento il diritto. Poi so
che le cose che faccio mi rendono un
riferimento per altri, perché le faccio
dopo ciò che mi è accaduto. Ma io non
vado all’ironman per dimostrare qualcosa
a qualcuno».
Neanche a sé stesso?
«No, vorrebbe dire andarci con il
dubbio di non arrivare in fondo. Io
invece mi sono posto un traguardo
realistico, in cui non vedevo nulla di
magico. Fare l’ironman senza gambe
secondo me è una semplificazione non
una complicazione, solo che quando lo
dico non lo scrivono volentieri: rovina un po’ il romanticismo del racconto di
Zanardi eroe, che mi lusinga, sia chiaro,
anche se mi sembra meno realistico
di come lo vedo io».
- Che cosa ha imparato nel 2001 che
non sapeva di sé?
«Davanti al film Nato il 4 luglio in
cui Tom Cruise restava su una sedia
a rotelle mi son detto: “Se capitasse a
me mi ammazzerei”. Credo di aver fatto
un ragionamento superficiale nella
convinzione che a me non sarebbe accaduto.
Poi quando l’uno su un milione
sei tu, te ne freghi della statistica
e ti fai su le maniche. E quando ci sei
dentro ti scopri più dotato di quanto
credessi. L’idea del suicidio dopo non
mi è mai passata per la testa, mai».
- In effetti la vitalità si nota...
«Per fortuna di mia moglie e di mio
figlio, a casa ho momenti di tranquillità, sarei anche pigro se assecondassi
l’istinto. A casa sono quello che sono,
che è cosa diversa da quello che la gente
vuole vedere in me. Quando tutti
vogliono conoscere Zanardi mi dico:
sarò mica meglio da lontano? Che poi
magari da vicino il fenomeno è uno
con un sacco di difetti, che non sono
solo le gambe e il naso storto?».
- Progetti per il 2015?
«Rispettare le caselle colorate sul
calendario che mia moglie mi prepara.
Il 4 gennaio c’è Sfide su Pantani. Preparare
il Mondiale di handbike, lavorare
al progetto automobilistico con Bmw:
stiamo provando a capire se si possa
mettermi tecnicamente in grado di dividere
l’abitacolo con piloti normodotati
per gare di durata, dato che io guido
un’auto con comandi particolari».
- Teme, da atleta, il momento in cui l’anagrafe le chiederà il conto?
«Più che spaventarmi, mi rompe le
scatole. Quando i ragazzi delle scuole
mi chiedono l’autografo e mi ammirano
per le imprese, io dico loro che li
invidio perché hanno ancora tutto davanti.
Se ti interessa solo il traguardo,
ma non hai passione per il percorso,
quando ti trovi sull’handbike, bardato
con la bandana, nella nebbia dei colli
Euganei, ti dici “soc’ col freddo che fa
chi me lo fa fare?” e ti arrendi.
E invece il momento più bello è quando punti
la ruota dell’handbike verso nord all’inizio
di una nuova avventura».
Ma, dopo, da grande?
«Mi piacerebbe imparare a suonare
la chitarra».
- Incontra tante persone, c’è qualcuno
di cui avrebbe lei curiosità?
«Che tempismo, posso retrodatare
la domanda? Qualche giorno fa ho
conosciuto Dino Zoff: con Mario Andretti
era il mito di mio padre. Quella
sera non avevo voglia di uscire, mi son
detto “appena posso taglio l’angolo e
vado a nanna”. Morale: con Dino ci siamo
trovati e abbiamo parlato così tanto
che hanno dovuto lasciarci le chiavi.
E dopo ho pensato a mio padre. Se fosse
qui sarebbe in giro a raccontare, orgoglioso,
che il cinno (il bambino, ndr)
ha conosciuto Dino Zoff».