Pensare, disegnare un approccio europeo all'immigrazione, una visione comune. E' stato questo l'obiettivo del progetto internazionale "Diverse", che si è concluso l'11 giugno con una conferenza all'Università Cattolica di Milano, e che ha analizzato e messo confronto dieci Paesi europei (Italia compresa) in merito alla valorizzazione dell'immigrazione. Il progetto, cofinanziato dal Fondo europeo d'integrazione e coordinato da Laura Zanfrini, docente di Sociologia delle migrazioni e della convivenza interetnica all'Università Cattolica, in collaborazione con vari partner tra cui la Fondazione Ismu, ha preso in esame tre punti: la percezione degli immigrati come risorsa strutturale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa, la promozione nel mercato del lavoro del diversity management (la gestione e valorizzazione e della diversità come risorsa), il sostegno alla partecipazione sociale e l'impegno civico degli immigrati.
Professoressa Zanfrini, in merito alla valorizzazione degli immigrati come risorsa economica e sociale, come si colloca l'Italia rispetto agli altri Paesi europei presi in esame dal progetto?
L'Italia presenta delle carenze istituzionali, ad esempio nel riconoscimento delle competenze e dei titoli di studio stranieri, pratiche nelle quali altri Stati come la Germania sono molto avanzati. Tuttavia, nel nostro Paese si manifesta una grande ricchezza di iniziative che partono dal basso, dalla società civile. Si va dalle pratiche più elementari - l'aiuto spontaneo nei confronti di chi arriva per quanto riguarda la richiesta del permesso di soggiorno e la ricerca di una casa -, fino ad esperienze professionali come l'agenzia di head hunting (cacciatori di teste) che ricerca immigrati di seconda generazione per valorizzare le loro competenze linguistiche e culturali, risorse strategiche per le imprese che hanno contatti con l'estero. Pensiamo sempre che l'integrazione dipenda dalla politica, dal Governo e dalle istituzioni. Invece, come emerge anche dalla nostra ricerca, la società civile ha un ruolo fondamentale nel fare integrazione.
Lei ha parlato di seconda generazione: all'interno del fenomeno dell'immigrazione vanno distinte le problematiche di chi è figlio di migranti ed è nato o cresciuto qua rispetto agli immigrati di prima generazione.
E' vero, ma per l'Unione europea il discrimine reale non è prima-seconda generazione, ma comunitario-extracomunitario. L'Ue imposta le sue politiche sulla base di questa discriminante che però, come la nostra ricerca dimostra, non riflette affatto la realtà. Il fatto è che l'Europa da un lato vorrebbe investire sulla libera circolazione e la mobilità. Dall'altro lato, quando si tratta di cittadini extra-Ue mantiene alte e salde le frontiere. In questo senso noi parliamo di schizofrenia dell'approccio europeo all'immigrazione. In generale le statistiche ci dicono che le seconde generazioni sono una categoria comunque svantaggiata nei percorsi formativi e professionali, non tanto a causa di una forma di discriminazione etnica, quanto perché spesso provengono da famiglie più povere, di strati inferiori e più deboli, che offrono dunque meno strumenti educativi, meno opportunità ai loro figli. In Italia abbiamo un'immigrazione in gran parte molto povera, composta da persone e famiglie che si collocano in una fascia debole. Spesso chiamiamo discriminazione etnica quella che in realtà è una discriminazione socio-economica. C'è poi ovviamente una componente di immigrati di seconda generazione che in molti settori del mondo professionale può essere avvantaggiata perché vanta la conoscenza di più lingue, di più Paesi e culture, una vasta apertura mentale.
Possiamo dire che una delle caratteristiche dell'Italia è che attrae meno immigrazione altamente qualificata rispetto agli altri Paesi?
Non solo l'Italia. In generale l'Europa, che fa molta retorica, non ha la capacità attrattiva che hanno invece Stati Uniti e Canada. Del resto questo fenomeno riflette il modello europeo fondato storicamente sull'idea che gli immigrati servono a fare i mestieri che i cittadini di un Paese non vogliono più fare, lavori di bassa manovalanza, a buon mercato, non qualificati. In Italia abbiamo in generale un mercato del lavoro che non valorizza i talenti ma premia la disponibilità ad adattarsi a qualunque lavoro. Con la crisi economica questo aspetto si è notevolmente accentuato, per gli italiani per gli immigrati. Sul fronte dell'immigrazione, uno straniero che si adatta a qualunque tipo di lavoro vuol dire che guadagna poco, paga poche tasse, versa pochi contributi: quello che ci sembra vantaggioso nel breve periodo, nel lungo periodo significa basso impatto dell'immigrazione sul sistema contributivo, dunque uno svantaggio.
A fronte della tragedia immane degli sbarchi sulle nostre coste, favorire gli ingressi in Europa per via legale, attraverso l'ottenimento di regolare visto che dia la possibilità di arrivare, cercare lavoro, eventualmente tornare al proprio Paese, non sarebbe la soluzione più giusta?
Devo dire di no. In Italia è presente già una quota di immigrati qualificati che in maggioranza svolgono lavori manuali e non qualificati. Teniamo conto che abbiamo più di mezzo milione di immigrati disoccupati. Incoraggiare l'arrivo di ulteriore forza lavoro non sarebbe giusto. La priorità va data al tentativo di ricollocamento di quelli che sono già qui e che hanno perso il lavoro. Quanto al fenomeno degli sbarchi, va chiarito un punto: i migranti che arrivano da noi sui barconi si presentano come profughi richiedenti asilo. E' chiaro che la componente di "veri rifugiati" va governata con gli strumenti giuridici e i canali umanitari predisposti dalla comunità internazionale. Ma tutti quelli che si imbarcano sapendo che non hanno ragioni umanitarie per emigrare e, nonostante questo, fanno ricorso alla prassi della protezione umanitaria per nascondere una motivazione economica, stanno concorrendo a delegittimare e togliere risorse ai veri rifugiati. Dobbiamo dirlo: assecondando tale prassi noi sottraiamo risorse per i rifugiati che hanno realmente diritto e bisogno di protezione umanitaria. Anche il mondo cattolico dovrebbe fare questa riflessione, partendo sempre dal presupposto che la dignità dell'essere umano va salvaguardata in ogni caso.
In questi anni il tema dell'immigrazione in Italia è stato sempre governato da contrapposizioni politico-ideologiche.
Io vorrei invitare a ripensare il problema dell'immigrazione in un modo più equilibrato e con buon senso pratico. Ad esempio, il problema dei minori non accompagnati che arrivano da noi: perché non ci impegniamo prima di tutto a cercare di ricondurli alle loro famiglie nei Paesi di origine? E' evidente che intorno al tema dell'immigrazione gravitano tanti affari e interessi economici. La summer school "Mobilità umana e giustizia globale" promossa dal nostro Dipartimento di Sociologia con lo Scalabrinian migration institute quest'anno si intitolerà "Il diritto a non emigrare". Se da un lato è sacrosanto che ognuno abbia il diritto di andare dove vuole, bisogna anche dire che molti emigrano e sacrificano sé stessi, i loro talenti e le loro aspirazioni per mandare i soldi a casa e mantenere il resto della famiglia. Nelle Filippine, ad esempio, c'è un'intera generazione che si iscrive alla scuole per infermieri non per vocazione ma perché negli Stati Uniti cercano questa professionalità. I missionari ci dicono che spesso laddove c'è un emigrato, nel Paese di origine i familiari rinunciano a lavorare, a darsi da fare e vivono semplicemente aspettando le rimesse dall'estero. Ogni essere umano ha diritto alla sua personale realizzazione. Allora, è giusto che chi vuole emigrare, ma sarebbe anche giusto incentivare le autorità dei Paesi extracomunitari a responsabilizzarsi per frenare l'esodo dei loro cittadini verso l'Europa. Non possiamo arrestare il processo di costruzione di una società multietnica, multiculturale e multireligiosa, imporre barriere o steccati sarebbe assurdo, impensabile. Ma questo non significa che emigrare sia sempre la soluzione migliore.