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venerdì 25 aprile 2025
 
 

Zanzotto, il senso delle parole

18/10/2011  Ricordo del grande poeta veneto, scomparso oggi, all'età di 90 anni. Fece del linguaggio lo strumento per svelare il significato del mondo.

Aveva compiuto novant’anni il 10 ottobre, Andrea Zanzotto, nato a Pieve di Soligo nel 1921. Si è spento la mattina del 18 ottobre e con lui l’ultimo dei grandi vecchi della poesia italiana del Novecento. Stella polare della sua avventura intellettuale e poetica (da ricordare, come per tanti poeti novecenteschi, da Luzi a Pasolini a Raboni, anche il suo versante critico) è stata da sempre una terremotata, instabile, febbricitante esperienza del linguaggio.

Fin dal limpido e un poco spaesante esordio (quasi in odore di tardo ermetismo) di Dietro il paesaggio (1951), è chiaro che il poeta tratta del mondo sub specie linguistica e che le cose si fanno e si disfano al tocco dei nomi: cangianti, mobili, paludosi, semenzai di scoperte e di brillii. È il pullulare del linguaggio che dice il mondo – più che il mondo stesso – a interessare al poeta, già in quella raccolta tanto avanzato, oltre che nell’uso della retorica, nel maneggio dei significanti, dei suoni, delle suggestioni foniche: quelle che, dopo alcuni libri tra i suoi più alti e complessi (Elegia e altri versi, 1954; Vocativo, 1957; IX Ecloghe, 1962), occuperanno il campo da La beltà (1968) in poi, con il vitale e pur complesso contro-canto dei testi in dialetto.

Il codice linguistico diventerà auto-produttivo, proliferante, a tratti caotico: i suoi testi si faranno mappe, ingorghi di segni, esplosioni e implosioni di frammenti di linguaggi (è l’esperienza che prosegue nella trilogia costituita da Il Galateo in Bosco, 1978; Fosfeni, 1983 e, con recupero di trasparenza, Idioma, 1986: del resto anche nei punti più ardui il significato continua a prodursi, tra faglie storiche e letterarie in movimento e in attrito, come nel Galateo). La buona sorte critica dell’autore volle che anche la sua fase più anti-comunicativa fosse da subito accettata, glossata e storicizzata.

Per fortuna il suo “esistere psichicamente” (come suona il titolo di un testo di Vocativo) lo ha spinto ancora e sempre a sommuovere i campi della vitalità linguistica, il fondo verbale dell’immaginazione, senza assestarsi in una maniera puramente sperimentale. Così da una connaturata inquietudine, da un balbettio che ha qualcosa di vitalistico e di avventuroso, sono nati ancora testi ribollenti e sussurranti: quelli che punteggiano le raccolte ultime, da Meteo (1996) fino al recente Conglomerati (2009), all’unisono con mutazioni climatico-epocali.

Ripercorrendo la sua lunga carriera, un libro sull’orlo dell’esplosione sperimentale, tenacemente in equilibrio,
cui merita tornare a guardare, è certamente IX ecloghe: si rileggano da lì Per la finestra nuova («[…] O mia finestra, purezza inestinguibile. / Per farti spesi tutto ciò che avevo. / Ora, non lieto, in povertà completa, / ancora tutti i tuoi doni non gusto. // Ma tra poco / tutto mi darai quel che anelavo») e Così siamo («Dicevano, a Padova, “anch’io” / gli amici “l’ho conosciuto”. / E c’era il romorio d’un’acqua sporca / prossima, e d’una sporca fabbrica: / stupende nel silenzio […]») e si troverà, a un passo da più cerebrali invenzioni, il centro nevralgico di una poesia sospesa tra attesa e delusione, tra affermare e negare, tra senso e non senso.

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