Ha una faccia scolpita nella roccia e uno sguardo colore del piombo, più appuntito che severo. Il guizzo di un sorriso ironico li attraversa entrambi, rapido come una scossa. Tutto, attorno a Zdenek Zeman, evoca sobrietà, ordine senza orpelli. Più di tutto il parlare: pesato, essenziale, diretto. E sommesso, tanto da riuscire udibile a stento, anche sulla terrazza di un bar semivuoto, riparato in un parco di Lugano, all’ora della siesta. «Mi chiedono di alzare la voce, ma non lo faccio. È il mio modo di farmi ascoltare, chi grida si fa sentire ma non ottiene attenzione».
- Zeman, quest’anno allena a Lugano. È il Campionato italiano che, di tanto in tanto, sputa fuori Zeman o è Zeman che sbatte la porta?
«Ho fatto due esperienze a Roma che non mi sono piaciute: non riuscivo a lavorare secondo le mie convinzioni, ho avuto delle offerte in Italia, ma ho approfittato di questa situazione. Il Canton Ticino parla italiano, non mi sento all’estero: è come se fossi in un’Italia più ordinata e questo mi piace».
- Da lì le verrà meglio la parte di coscienza critica del calcio italiano?
«Coscienza critica? Non credo. Parlare di calcio italiano oggi non è facile, con tutto quello che succede. Però si spera che gente di buona volontà provi ancora ad affrontarlo come sport e come spettacolo».
- Parlarne è ciò che farà dalla Domenica sportiva. Lo sa che l’hanno presentata come “il diavolo” e che le hanno messo accanto Trapattoni per neutralizzarla con “l’acqua santa”?
«Con Trapattoni giovane andavo a pranzo quando mio zio allenava la Juventus: non è solo una persona simpaticissima, è un uomo di calcio. Alla sua età corre ancora in mezzo al campo».
- Lei ha denunciato i mali del calcio italiano. È servito?
«Non so se sia servito, ma si deve provare a fare qualcosa per lo sport: per me il calcio è sport, i guai arrivano quando viene vissuto come un’industria: allora il business prevale e nascono giochini non sempre puliti».
- Squadre, piccole, squadre grandi: la sua idea di calcio è sempre quella?
«Per me non conta la categoria, ma un posto di lavoro, dove divertirmi e cercare di far divertire la gente: ho perso tante partite in trasferta uscendo con l’applauso del pubblico avversario, per me questo vale come una vittoria».
- Lei non vuole vincere?
«Sì, ma non a tutti i costi, perché è giusto che vinca il migliore».
- Il pubblico per ora accetta tutto purché si vinca, fino a quando?
«Non lo so, dipende dalla pazienza. Ma io vedo sempre meno persone allo stadio. E credo che sia perché il calcio non è più credibile. Pochi ancora resistono per la dimensione sociale, per l’atmosfera e poi ci vanno i soliti facinorosi, perché allo stadio possono fare, senza che succeda niente, cose per cui se le facessero fuori andrebbero in galera. In Italia c’è spesso connivenza tra quei gruppi e le società, perché le società per non farsi ricattare e per non farsi male li hanno accontentati e ne hanno perso il controllo».
- Se avesse il potere nel calcio per un giorno, da dove comincerebbe per ridargli credibilità?
«Rimetterei al centro l’educazione, la cultura sportiva che forse in Italia si sconosce. Se genitori, allenatori, dirigenti, procuratori, giornalisti mettono in testa ai ragazzini che si deve arrivare a tutti i costi, invece di far capire che non tutti possono diventare fenomeni, tutti si sentono in dovere di diventarlo e allora poi si prendono le medicine, si comprano le partite. Prevenzione e punizione. Se non si prendono misure per cui chi non fa sport pulito se ne va dallo sport, non se ne esce».
- Ha denunciato il doping nel calcio: si fa abbastanza?
«Per me non è mai abbastanza».
- La giustizia sportiva è credibile?
«Io non ne ho buona esperienza».
- Zeman per alcuni è un uomo tutto d’un pezzo che non accetta compromessi, per altri un rompiscatole che ha vinto poco. E per lei?
«Uno che sta dalla parte della gente, che infatti mi ha sempre dimostrato affetto. È il sistema che non mi riconosce. È vero, non ho vinto scudetti, ma il Campionato è pieno di allenatori che non hanno vinto e che non sono arrivati neanche secondi, terzi, quarti come io sono arrivato».
- Il sistema non è espressione delle persone, della base?
«Il sistema lo fanno in pochi, non mi pare rispecchi la volontà popolare».
- Romagnoli pare il colpo del mercato, Verratti fa bene all’estero. Sono ragazzi suoi, che cosa rappresentano?
«La soddisfazione di un allenatore, anche al Foggia ne ho avute tante».
- È vero che ha detto no al Barça?
«C’era interesse da parte del Barcellona e del Real Madrid, ma io ero sotto contratto con la Lazio e con la Roma. Non è nel mio stile mancare la parola data.».
- Ci sono cose che non rifarebbe?
«No, perché ho sempre fatto cose in cui credevo».
- Scontrandosi sovente...
«Una volta l’allenatore era responsabile della squadra, ora molti dicono la loro, ma io sono uno che fa di testa sua e vado in rottura spesso».