Un Campionato europeo
si può perdere a venti
secondi dalla gloria o
vincere passando per lo
sghiribizzo di una monetina.
Dino Zoff lo sa.
Per la sua storia azzurra,
cominciata a 26 anni nella
porta dell’Italia, ai quarti di finale
di un Campionato europeo, l’unico
vinto dall’Italia nel 1968 (monetina
in semifinale), e finita da Commissario
tecnico, nel 2000, con il golden
gol di Trezeguet (dopo essere stati in
vantaggio fino al 93° e 40 secondi),
ha incrociato l’Europa del pallone in
nodi cruciali come nessuno.
Anche per questo è un padre nobile
ideale per l’Italia all’esordio
europeo, il 13 giugno contro il Belgio
ma, per come parla, sembra più un
papà che mette una mano sulla testa –
scompigliando chiome troppo ardite
per i suoi tempi – a ragazzi che potrebbero
essergli figli, o addirittura nipoti,
con lo sguardo di chi c’è passato e sa
come si sta, a partire per giocarsi tutto
e prendere tutto o prendere niente.
«Gli Europei storicamente sono
una piazza difficile per noi: sembra
strano ma è una manifestazione con
cui abbiamo, come Italia, un rapporto
complicato, di cui sono testimone. Ci
sono arrivato da Ct vicino per pochi
secondi: alla mia squadra di quel momento
posso dare atto d’aver giocato
bene, con comportamenti adeguati
alla responsabilità della maglia».
AZZURRITUDINI
L’Italia di oggi è capitanata
da Gigi Buffon, che l’ha onorata
con il record di presenze, ma Dino
Zoff, per ritrosia, per serietà, non ci
sta a giocare alle partite con la storia,
gli pare sempre inelegante mettere
altri a confronto con sé stesso come
termine di paragone: «Zoff/Buffon.
Conte/Buffon, come si fa a dire? È un
gioco che non mi piace tanto. Ognuno
vive i suoi tempi. Ma non credo
che oggi la maglia della Nazionale sia
meno sentita che in passato. Rispetto
a un tempo è forse diventata meno determinante
per la visibilità di un giocatore:
ai miei tempi era, tranne per i
pochissimi che giocavano la Coppa dei
Campioni, l’unico modo di farsi notare
all’estero, di diventare un calciatore
di valore internazionale. Oggi, questo
valore si misura attraverso i club: ci
sono tante coppe, le telecamere arrivano
dappertutto. Quando c’era meno
Tv paradossalmente la maglia azzurra
univa di più».
Zoff però la sua prima la indossò, in
casa, agli Europei, a Napoli, da portiere
del Napoli, buttato nell’acqua ai quarti
di finale senza preavviso: «C’erano
stati infortuni dei portieri titolari. Ma
non ero giovanissimo, avevo esperienza, tante partite alle spalle: è
stato emozionante soprattutto per il
pubblico napoletano».
Stavolta in casa giocherà la Francia,
spesso decisiva nel bene e nel male nei
trascorsi azzurri, e giocherà in un momento
storico particolare di tensione,
che potrebbe darle, come ai Mondiali
è accaduto a noi, un sovrappiù di compattezza:
«Non so se giocare in casa sia
un vantaggio, a noi nel 1968 andò bene,
ma non direi che il fattore campo sia
così significativo. Credo che, al di là dei
favori del pronostico sulla carta, che
parlano delle solite Francia, Germania,
Spagna, Belgio, sarà un Europeo molto
equilibrato. E credo che noi possiamo
dire la nostra e fare un buon
Europeo. Poi, vincere è sempre tutta
un’altra cosa».
L’Italia uscita dal cilindro di Antonio
Conte somiglia a quella che Dino
Zoff si aspettava alla vigilia delle convocazioni:
«Antonio Conte ha certamente
valutato più da vicino di me
e mi sembra proprio che abbia tirato
fuori il meglio. Certo gli infortuni di
Claudio Marchisio e Marco Verratti
comportano perdite importanti, ci
fanno perdere un po’ di qualità a centrocampo,
ma così è la vita».
L’Italia rispetto a un tempo è più
europea, pesca nel Paris Saint-Germain,
nel Manchester United, nel
West Ham: «Ma tenere d’occhio giocatori
sparsi non complica la vita a
Conte più che ad altri, sono di più i
giocatori stranieri in Italia che i nostri
all’estero. Semmai il problema è che,
esclusi gli juventini, nelle altre squadre
di Campionato italiano gli italiani
hanno poco spazio e questo restringe
fatalmente la rosa della Nazionale».
In compenso l’Europa del pallone
è diventata virtualmente più grande,
l’assetto politico uscito dalla caduta
del muro di Berlino e dalla disgregazione
dell’ex Jugoslavia ha moltiplicato
le squadre pretendenti: «Ma rispetto
ai tempi in cui giocavo io questo ha
fatto diminuire la difficoltà degli Europei,
reso più semplice passare il turno.
Russia e Jugoslavia erano due sole
squadre, è vero, ma erano ossi più duri
della somma delle attuali spezzettate:
erano fortissime».
In Francia la qualificazione agli
ottavi degli azzurri di Conte passa per
Belgio, seconda nella classifica mondiale
della Fifa; Svezia, ricordo di un
fedifrago “biscotto” subìto dall’Italia
di Trapattoni in Portogallo nel 2004, e
Irlanda, beffarda con l’Italia in avvio
di Mondiale 1994. Ma Zoff, concretissimo
friulano, sideralmente lontano
dalle cabale, si regola con la logica dei
valori in campo: «Belgio e Italia devono
passare il turno».
Adesso che si dice che giochi “all’italiana”
pure il Real Madrid, non si
può dire che doverlo fare sia un’offesa,
meno che mai a un Dino Zoff, grande
estimatore di Enzo Bearzot: «È un’espressione
di cui si abusa a tutte le latitudini.
Io vorrei ricordare che con il
gioco “all’italiana”, che non era quello
che hanno in mente quelli che vedono
male l’Italia, nel 1982 abbiamo vinto
i Mondiali. Dobbiamo giocare con le
nostre qualità, inventiva e fantasia
sono le nostre attitudini, dobbiamo
sfruttarle al massimo».
Detto questo, lui che pure aveva
un’Italia offensiva, la mette sul realismo:
«Il calcio è semplice: si attacca
quando si può, ci si difende quando
non si riesce ad attaccare. Credo
che l’importante sia l’equilibrio della
squadra in campo. Gli uomini contano
più della filosofia: se hai 11 fenomeni
puoi andare sempre all’attacco, se
non li hai è da scriteriati, perdi». Sa per
esperienza che la panchina dell’Italia è
scomodina: «Ma non più di quanto lo
siano tutte le panchine in Italia».
PIEDI PER TERRA
Se poi si va avanti prima
o poi andrà a finire com’è scritto
da sempre nelle stelle: Italia-Francia;
Italia-Germania. Ma è davvero troppo
presto per dirlo.
E allora si fa il gioco dei ricordi tatuati
nell’anima (e solo nell’anima, ai
tempi di Zoff non usava il calciatore
affrescato come la Cappella Sistina):
«Con la Germania il più intenso è
quello del Mondiale 1982 (quando le
mani di Zoff divennero un dipinto di
Guttuso, ndr), con la Francia, ahimè, gli
ultimi 20 secondi di sofferenza dopo il
pareggio di Wiltord al 93° minuto e 40
secondi nel 2000. No, non sogno mai
– ogni volta che rivedo quel gol – che
la palla esca: sono fatalista, quello che
è successo è successo. I se e i ma non
contano». Il golden gol che giustiziò
la sua Italia e la monetina che gli permise
di vincere sono regole decadute:
«Meglio i rigori: una monetina con
qualcosa in più di qualità».
Gli abbiamo chiesto un bigliettino
per l’Italia: «Fiducia nei vostri mezzi,
ragazzi, senza troppe bandiere al
vento». Dove li vedrà: «A casa, quando
guardo il calcio non amo la compagnia,
stando a sentire le critiche di
tutti. Già i media sono così feroci».