Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, intervento a Barbiana in occasione dell’apertura ufficiale delle celebrazioni per il centenario della nascita di don Lorenzo Milani, chiede di guardare alla sua «lezione» che è «per tutti, credenti e non». Per cambiare le cose, spiega, «non serve innamorarsi delle proprie idee, ma bisogna mettersi nelle scarpe dei ragazzi di allora e di oggi" e "non siano strappati da un destino già segnato"».
« Questo centenario vorremmo fosse un’occasione per restituire Lorenzo Milani alla verità del suo magistero e della sua persona, per tornare ad ascoltare la sua voce. Chi era don Milani? Un uomo inquieto, assetato di assoluto, che a vent’anni ha voltato le spalle ai privilegi della sua influente famiglia cosmopolita e borghese per farsi prete; un sacerdote sempre obbediente alla sua chiesa eppure insofferente verso una fede praticata per abitudine o superstizione; un maestro esigente che non ha risparmiato critiche a un sistema scolastico selettivo e ai suoi allievi ha insegnato ad essere cittadini sovrani, consapevoli dei loro diritti. Sarebbe un errore contrapporre il prete al maestro, separare la lingua sacra dalla lingua profana, le lezioni di catechismo con la cartina della Palestina attaccata al muro della canonica e quelle di italiano fatte leggendo il giornale o i contratti di lavoro.
Serve «una scuola che li difende più di qualsiasi altra maestra, una scuola che non certifica il demerito ma che garantisce a tutti il loro merito, le stesse opportunità perché non taglia la torta in parte uguali, quando chi deve mangiare non è uguale». È il concetto dell’ingiustizia di far parti eguali tra diseguali, caro a Milani: Zuppi, che tra le altre cose da papa Francesco l’incarico di condurre una missione, in accordo con la Segreteria di Stato, che contribuisca ad allentare le tensioni nel conflitto in Ucraina, sottolinea l’attualità del pensiero milaniano: «Diseguaglianze e abbandono scolastico sono in aumento».
Don Milani, dice, ha avuto una «vita brevissima, alla quale la Chiesa in Italia e tutto il nostro Paese devono molto. Ha fatto della radicalità evangelica (perché c’è un Vangelo tiepido?) il senso del suo amore alla vita e della sua fedeltà a Cristo. Da credente. Ha trasformato un esilio in un esodo, ha preso per mano la Chiesa, rivendicando il suo servizio agli ultimi come dimensione spirituale e servizio ecclesiale».
Una visione evangelica che è insieme civile: «Oggi ricorda alla Chiesa che le basta il Vangelo e l’amore che genera amore e alla Repubblica che deve ancora “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale’ perché l’uguaglianza è il suo ‘compito’ da non tradire”». Ricordarlo cento anni dopo, non è guardare indietro ma avanti: Don Milani «ci mette in cammino verso il futuro, con la vera risposta che è la passione evangelica e umana capace di generare vita», ha concluso Zuppi: «Il futuro, la bellezza della vita benedetta e più forte delle paure, per cui vale la pena viverla e donarla, è tutto nel I Care. I Care ci libera dall’osceno e disumano me ne frego, anche quello detto con più raffinatezza. Il primo I care è quello di Dio, il miglior maestro e padre».
A margine, Agostino Burberi, oggi presidente della fondazione don Milani, che aveva otto anni e stava servendo messa quando lo vide arrivare nel dicembre 1954 a Barbiana, dove si arrivava a piedi percorrendo per l’ultimo tratto una mulattiera : «Entra in chiesa si inginocchia nell’ultima panca. Non era mai venuto a vedere prima, è venuto quassù per restarci da quella sera. Una parrocchia isolata pressoché dismessa:120 abitanti sparsi in 20 case, fame, terra avara da strappare al bosco. Era un maestro e un educatore molto severo, pretendeva la disciplina, ma ci considerava tutti i figli:passavamo con lui 12 ore al giorno, io vedevo mio padre, che faceva l’operaio e si alzava alle 4 e tornava alle 10 di sera, solo la domenica. Don Lorenzo ci voleva un bene dell’anima, pensava alla nostra salute, si preoccupava che stessimo bene, che mangiassimo a suffficienza, si interessava ai nostri problemi. L’hanno cacciato quassù per punizione, ma credo che corrispondesse al suo volere: ha chiesto a Dio di mandarlo povero tra i poveri».
«In questo centenario» osserva Rosy Bindi presidente del Comitato nazionale per il Centenario di don Lorenzo Milani, «vorremmo fosse un’occasione per restituire Lorenzo Milani alla verità del suo magistero e della sua persona, per tornare ad ascoltare la sua voce. Chi era don Milani? Un uomo inquieto, assetato di assoluto, che a vent’anni ha voltato le spalle ai privilegi della sua influente famiglia cosmopolita e borghese per farsi prete; un sacerdote sempre obbediente alla sua chiesa eppure insofferente verso una fede praticata per abitudine o superstizione; un maestro esigente che non ha risparmiato critiche a un sistema scolastico selettivo e ai suoi allievi ha insegnato ad essere cittadini sovrani, consapevoli dei loro diritti. Sarebbe un errore contrapporre il prete al maestro, separare la lingua sacra dalla lingua profana, le lezioni di catechismo con la cartina della Palestina attaccata al muro della canonica e quelle di italiano fatte leggendo il giornale o i contratti di lavoro. (...) Non voleva essere ricordato per la sua storia, ma per i poveri».
Sul versante ecclesiale il comitato farà dialogare don Milani con la chiesa del suo tempo, non dimentichiamo che a quel tempo a Firenze c’erano il cardinale Elia Dalla Costa, padre Balducci, David Maria Turoldo». Testimoni di una visione del mondo «coerente con la chiesa in uscita che abita le periferie del mondo di cui ci parla papa Francesco», non a caso il primo papa ad arrivare a Barbiana nel 2017. «La sete di giustizia spinse don Milani a denunciare l’arroganza padronale del tempo, a schierarsi a favore di diritti come la scuola per tutti e il lavoro, appellandosi alla Costituzione. Molti diritti, da allora oggi sono stati riconosciuti e conquistati, ma resta vero che chi non ha parole resta in una posizione di debolezza civile».
Nella foto, una curiosità: alle spalle del cardinale Matteo Zuppi, si vede appeso un testo a ideogrammi cinesi: si tratta della calligrafia in mandarino del Padre nostro, realizzata da don Pietro Kuo, un sacerdote cinese emigrato dalla Cina che frequentava Barbiana a e volte come tanti altri sacerdoti di passaggio confessò don Milani.