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27 marzo 1994, il giorno che cambiò l'Italia

Silvio Berlusconi in campagna elettorale, prima della vittoria del 27 marzo 1994.
Silvio Berlusconi in campagna elettorale, prima della vittoria del 27 marzo 1994.

Per comprendere il periodo che abbiamo appena vissuto e che viene definito, in maniera assai enfatica ma ugualmente poco gloriosa, “nuovo ventennio”, basta ritornare al 27 marzo del 1994, quando Silvio Berlusconi vince le elezioni politiche italiane sorprendendo il mondo intero.

Tra le sue mirabolanti promesse di quella campagna elettorale, molti ricordano il celeberrimo “milione di posti di lavoro” che da allora, peraltro, stiamo ancora attendendo. Ma pochi ricordano che quel neofita della politica, quell’industriale che “scendeva in campo”, promise, dicendosi sicuro di riuscirvi, di tagliare le tasse «sotto la soglia naturale del 33%». Anche di questa previsione non si ha traccia visibile. Eppure, tutto questo non è bastato a rendere l’inventore di Forza Italia un “politicante poco affidabile”.

Gli italiani, al contrario, si sono dimostrati molto generosi nei suoi confronti e, perdonandogli promesse non mantenute, gaffe ed errori - più molto altro, col passare del tempo - si sono affidati a lui, convinti, speranzosi, ottimisti, come egli, in effetti, li voleva. Che poi speranze e ottimismo albergassero altrove, questo è un altro paio di maniche. Una cosa è certa: spesso la storia di questo Paese si ripete in forma di burletta.

Berlusconi è stato bravissimo a comprendere cosa andava detto e fatto per far innamorare di sé gli italiani. E questo ha fatto. Ma chi doveva e poteva capire, chi doveva e poteva tentare di arginare, non capì. I politici, i politologi, gli analisti, un po’ tutti, erano convinti che quell’avventura elettorale, in cui un imprenditore si lanciava con entusiasmo quantomeno sospetto («Questo è il Paese che amo», ricordate?) sarebbe finita in ben poca cosa. Tanto che perfino un suo “collega”, Gianni Agnelli, arrivò a benedire quella candidatura affermando frettolosamente sicuro di sé: «Se perde, perde lui, se vince, vinciamo tutti noi».

Berlusconi non solo ha vinto, ma ha dominato una nazione intera, così come successe a un altro banditore che fece innamorare la piazza per un altro ventennio. Oh, intendiamoci: non voglio dire che Berlusconi sia stato un dittatore, giammai, ma che una forma di dolce e moderna dittatura, alla fine, ha fatto capolino in Italia a causa del berlusconismo, così come in passato è esistito un mussolinismo oltre il fascismo.

Culto della personalità, ego smisurato, scarso amore per la cultura, superficialità d’analisi, dubbie valutazioni nei rapporti internazionali: sono tutte cifre in comune di due periodi ventennali, di due modi di stare al potere. Che poi sia più facile osservare le rovine del primo ventennio, perché fisicamente lì, sotto gli occhi di tutti dopo l’orrore della guerra, e meno facile percepire il senso di povertà odierno di un Paese retrocesso a poca cosa agli occhi del mondo intero, lo si può constatare non solo andando all’estero, ma soprattutto restando qui.

Ancora oggi, infatti, moltissimi italiani sono convinti che questo sia il migliore dei Paesi dove vivere. Salvo poi stupirsi (a dimostrazione di come un popolo sia stato abilmente distratto da chi era stato scelto come guida) ogni volta che passa il confine di Chiasso, anziché di Ventimiglia. C’è chi torna da un viaggio meravigliato perché altrove (quasi ovunque, a dire il vero), si può accedere a Internet gratuitamente da un bar o da un albergo, per esempio, o perché «tutti parlano inglese come se fosse la loro lingua», o perché nelle aziende i giovani siano di più rispetto a chi ha passato i fatidici anta.

Eh, già: ma basterebbe ricordare le mirabolanti promesse delle tre I del ministro dell’istruzione Moratti. Internet, impresa, inglese. Non era il 1994 ma il 2001, e al governo c’era ancora Berlusconi. Anni dopo, giustificando i tagli alla ricerca, il ministro berlusconiano dell’economia Giulio Tremonti ebbe a dire che con «la cultura non si vive». Qui? Da noi? In Italia? Nel Paese che più di ogni altro mostra pezzi di cultura a ogni angolo delle strade?

Anestetizzati gli italiani, si sa, diventa poi facilissimo raccontare qualsiasi cosa, spararla grossa senza il rischio dell’eduardiano pernacchio. E affermare perfino che la guerra sta all’uomo come la maternità alla donna (B. M.). O che chi è scelto dalla gente è come unto dal Signore (S. B.). Sul momento, in molti s’inchinano di fronte a tanta maestosa produzione dell’intelletto. Dopo, ma solo vent’anni più tardi, scappano tutti in direzione opposta, mentendo a se stessi, al proprio passato, alla propria storia e, dunque, al Paese e al futuro.

Intanto, però, siamo a vent’anni da quel fulmineo successo di un uomo che, a detta del suo amico più caro, Fedele Confalonieri, si era buttato in politica per non finire in galera. Berlusconi non ha mai smentito e quindi dobbiamo pensare che sia stato davvero così. In questo caso, finora, ha mantenuto la promessa.


27 marzo 2014

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