Una foto scattata da Tazio Secchiaroli sul set di 8½: Fellini, a sinistra, detta a Marcello Mastroianni gesti e parole.
La prima cosa che viene in mente è: impossibile, figuriamoci se l’Academy of motion picture arts and sciences può premiare un film così. Poi, però, a mente fredda, ripensandoci, si capisce meglio perché un capolavoro del calibro di Otto e mezzo, di Federico Fellini, si sia meritato l’Oscar per il miglior film straniero nel 1964. Il fatto è che mentre per le pellicole made in Usa la scelta fa prevalere il connubio - più o meno riuscito - tra impegno artistico, commercializzazione del prodotto e buoni sentimenti nazionali, nei criteri di giudizio per i film stranieri il fattore artistico è (era) prediletto.
Così, se da un lato, per esempio, nel 1942 a Quarto potere, capolavoro assoluto americano ai livelli di Otto e mezzo, viene preferito il ben più scialbo Com’era verde la mia valle, sui film stranieri il giudizio ha privilegiato per molti anni proprio il lato artistico tout court, rispetto a quello del botteghino facile.
E così, Federico Fellini, il 13 aprile di 50 anni fa, benché un po’ riottoso e annoiato dall’ennesimo viaggio aereo in America (aveva già vinto due Oscar con La strada e Le notti di Cabiria), riceve la terza di cinque statuette per quello che molti critici ritengono il più bel film della storia del cinema. Oh, certo, c’è chi preferisce l’Orson Welles di Quarto potere o l’Ejzenstejn de La corazzata Potemkin o, ancora La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer. Ma qui il discorso s’allargherebbe a quella divertente classifica personale che ognuno può fare sui migliori film di sempre. E allora vale qualsiasi pellicola, nessuna esclusa.
Resta il fatto che nel 1964, quando riceve l’Oscar per il miglior film straniero, Federico Fellini è ormai all’apice di una carriera sfolgorante iniziata solo 14 anni prima, nel 1950, con la regia a quattro mani, in coppia con Alberto Lattuada, di Luci del varietà. E Lattuada aveva sudato molto per convincere il giovane amico riminese a passare dietro la cinepresa, dopo anni di sceneggiature per altri autori. Quanto a Fellini, del suo viaggio americano di quel trionfale 1964, amava ricordare che tutti gli chiedevano di fare un film sull’America, su New York, o magari di mettersi a girare una personalissima Divina commedia, o perché no, un film di fantascienza pura. Davanti a simili proposte, lui sorride, annuisce, con tutti è fintamente cortese: «Sì, certo, sono grandi idee, vedremo, mi piacerebbe, chissà…». Insomma, tante scuse pur di farla finita con Hollywood e tornare, finalmente, nella sua amata Cinecittà.
Otto e mezzo, fin dal titolo, si presenta apparentemente enigmatico: l’otto starebbe per il numero di film girati e il mezzo dovrebbe essere quello con Lattuada, ma così i conti non tornano. A meno che il regista non abbia tolto dal conto anche l’episodio Le tentazioni del dottor Antonio, che precede proprio Otto e mezzo (anzi, per essere corretti, 8½, come lo citeremo da qui in poi). Il film, all’uscita, divide nettamente la critica dal pubblico: amato da generazioni di cinefili e di autori (Truffaut disse: «8½ è il film che ogni regista vorrebbe fare, ma l’ha già girato Fellini»), replicato in varie occasioni da tanti, forse troppi, tra cui lo stesso Truffaut, Woody Allen, Nanni Moretti, addirittura rivisitato in musical, omaggiato ovunque come un capolavoro di cinema d’avanguardia, premiato perfino nella gelida Russia sovietica al Festival di Mosca, ha successo anche al botteghino ma poi il pubblico, in larga parte, esce dalla sala sconcertato e confuso. Dice Fellini, divertendosi: «Un tassista mi ha detto, entusiasta: “A dotto’, io 8½ l’ho visto tutto. Un gran firm, nun c’ho capito gnente”».
È l’ultimo lavoro in bianco e nero del regista, ma è anche quello che apre la via alle confessioni dei registi rivolte al pubblico: la crisi esistenziale e creativa dell’artista, i suoi sogni e le ambizioni, le delusioni e i rimpianti del protagonista (ancora una volta Marcello Mastroianni). Fellini sdogana tutto il proprio mondo interiore più intimo con una semplicità che sfiora la provocazione. Il produttore, Angelo Rizzoli, durante la lavorazione diceva: «Non so cosa stia combinando, non capisco cosa stia facendo, ma mi fido di Federico».
Anche il pubblico si fida e dice di sì a questo regista destinato a diventare non solo il più famoso nel mondo, ma addirittura l’icona di se stesso: «Sono diventato anche un aggettivo, fellinesque, felliniano», ripeteva con senso dell’umorismo negli ultimi anni.
8½ è un film sul film e un film nel film, un film a scatole cinesi che continuamente si aprono e si richiudono, tra passato, presente, futuro, realtà e invenzione, in un turbinio continuo di immagini oniriche miste a interpretazioni della vita quotidiana, denso di domande irrisolte che ancora oggi, cinquant’anni dopo, suscitano gli stessi brividi di allora. Come quella che il personaggio del cardinale rivolge, replicando, a un Mastroianni perplesso e quasi depresso: «Chi lo ha detto che si viene al mondo per essere felici?»
Il grande Federico non ci dà una risposta netta in questo senso, ma ci indica ugualmente una possibile via, aiutato da sceneggiatori sodali del calibro di Tullio Pinelli, Ennio Flaiano e Brunello Rondi, e dalle musiche di un Nino Rita sfolgorante, che con la marcetta del film arriva a comporre quello che il biografo più coscienzioso del regista, Tullio Kezich, ha definito «l’inno nazionale di Federico Fellini». E, allora, è difficile pensare che un film così complesso potesse avere successo e arrivare a vincere l’Oscar (d’altra parte gli esercenti americani volevano proporlo nelle sale in versione… cronologica: Guido, il protagonista, da bambino; poi Guido regista; poi Guido con le sue difficoltà personali, virando in color seppia i sogni e gli incubi perché altrimenti il pubblico non capirebbe). Fellini si oppose in modo netto vincendo la scommessa.
La prova? Per decine di anni, a New York è esistita una sala cinematografica che aveva in cartellone solo un film: 8½, dalla mattina alla sera, dal 1964 ai giorni nostri. Un cinema d’avanguardia che ha poco a che fare con quel premio ma che non poteva che trionfare e guadagnarsi l’Oscar. E vincerne un secondo, per i costumi di Pietro Gherardi, altra invenzione straripante, un florilegio di creazioni fantastiche che rendono 8½, ancora oggi, paragonabile a un film di moda fantascientifica.
Resta, infine, quel finale inimitabile con la passarella di tutti i personaggi della vita di Guido, gioiosa e malinconica al contempo. Arriva come una rinascita spirituale e personale, ma solo dopo che Guido ha finalmente capito con lucidità e sincerità, confessandolo al pubblico, che bisogna saper volere bene e accettare il mondo così com’è, per essere felici e sentirsi buoni. Il che non è poco, per un film che doveva chiamarsi inizialmente… La bella confusione.