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venerdì 14 novembre 2025
 
TELE... COMANDO Aggiornamenti rss Marco Deriu
Giornalista e docente di Teoria e tecnica dei media all'Università Cattolica

A cosa serve il video shock?



Stavolta è toccato agli immigrati ospiti del Cie di Lampedusa diventare protagonisti dell’ennesimo “video shock” diffuso dalla televisione, in cui si vedono persone trattate come bestie. È stato il Tg2 a mandare in onda in esclusiva un filmato girato all’interno del centro, poi ampiamente ripreso dalle altre testate televisive e inevitabilmente approdato sui siti dei quotidiani online. Sono immagini sconvolgenti, che richiamano quelle simili girate di nascosto nei ricoveri per anziani, negli asili e in tutti quei luoghi in cui la prepotenza del più forte aggiunge sofferenza e umiliazione a chi già si trova in difficoltà.

Le conseguenti reazioni di indignazione hanno una portata direttamente proporzionale all’onda emotiva suscitata: forte e dirompente, ma destinata a spegnersi nel giro di poche ore, una volta consumato il rito delle dichiarazioni di circostanza.
L’occhio della telecamera nascosta permette a tutti noi di vedere cosa succede e, quindi, di reagire. Ma nello stesso tempo rischia di essere una violazione ulteriore della sfera privata di queste persone, messe a nudo anche davanti agli occhi curiosi del vasto pubblico televisivo.

Se il piccolo schermo non disdegna il video-scoop a base di immagini “rubate” (probabilmente più per motivi di audience che in virtù di un intento di denuncia sociale), noi spettatori non resistiamo al fascino perverso di certe immagini e il nostro istinto guardone si lascia facilmente catturare da filmati del genere.
Possiamo vedere senza essere visti e senza che i protagonisti delle immagini a loro volta sospettino di (poter) essere visti da noi. È il meccanismo della “candid camera” e, per certi versi, della tv-verità, quella televisione capace di catturare i fatti più eclatanti nel momento in cui si verificano, per poi restituirli all’attenzione popolare senza mediazione.

Un video come questo avrebbe senso se riuscissero a mobilitare, oltre all’inevitabile condanna morale (e, auspichiamo, anche materiale) dei responsabili, anche una genuina spinta alla solidarietà, capace di durare nel tempo e di cercare di capire le cause che stanno a monte di certe situazioni.
Inchieste, servizi giornalistici e documenti sulle condizioni di vita dei migranti non mancano. Perché non ci bastano le parole? Perché abbiamo sempre bisogno delle immagini scioccanti per accorgerci di quello che succede intorno a noi?


18 dicembre 2013

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