I rifugiati all'interno dell'Ainkawa Mall, il centro commerciale dove da mesi vivono migliaia di profughi cristiani fuggiti davanti all'Isis (foto F. Scaglione).
Da Erbil - Ainkawa Mall (cioè, il Centro commerciale di Ainkawa) è un’altra di queste storie crudelmente paradossali del nostro tempo. Il Centro, infatti, doveva essere il gioiello commerciale di Ainkawa (che a sua volta significa Sorgente di Kawa), corposo sobborgo (circa 40 mila abitanti) di Erbil, in ossequio all’impetuoso sviluppo che la zona stava vivendo fino a un anno fa.
Gioiello che andava a inserirsi, tra l’altro, nella particolare situazione di Ainkawa, centro per lunghissima tradizione abitato dai cristiani, che ancora occupano in modo compatto l’area di più antico insediamento.
Il Mall è costruito a metà, di completo c’è solo la struttura esterna, ma da molti mesi è diventato il condominio della miseria. Sul cemento di pavimenti mai finiti sono stati posati tappeti, al posto degli scaffali delle merci sono sorte sottili pareti di plastica, e lì sono finite a vivere 406 famiglie, oltre 1.700 persone, scappate dai villaggi della Piana di Ninive per sfuggire all’avanzata dell’Isis. Quello che doveva essere un simbolo del progresso e del benessere si è trasformato nell’esatto contrario: un monumento alla miseria e all’angoscia generati dallo spauracchio reazionario dell’Isis ma anche il simbolo della sempre più precaria situazione dei cristiani dell’Iraq. Perché Ainkawa Mall è popolato esclusivamente da profughi cristiani.
Così, uomini, donne, bambini, anziani e persone malate sono costretti da sette mesi a vivere in un allucinante (ma forzato) esperimento architettonico: un cantiere riempito di container, se qualcuno riesce a immaginarlo. Nel Mall si affannano Ong di ogni genere, che cercano di alleviare la pena di viverci. Focsiv, per esempio, e solo oggi, ha portato 50 bidoni di kerosene per le stufe il mattino e ha fatto animazione per 150 bambini, e un sacco di adulti fuori età ma contenti lo stesso per un poco di buon umore, nel pomeriggio.
Ma i mesi passano, la gente è sempre più esasperata e tutto diventa di giorno in giorno ancora più difficile. Anche perché la “facciata” del profugo cronicizzato nasconde quasi sempre una storia di onesta e operosa piccola borghesia, che nel precipitare improvviso e inspiegabile della sorte, risoltosi in un impoverimento senza prospettive, trova ulteriore motivo di sconforto. Al terzo piano del Mall incontro la signora Galavezh, scappata da Korokosh davanti ai miliziani dell’Isis. “Mio marito aveva un negozio di alimentari, mio figlio uno di elettronica, mia figlia era impiegata al Comune, io sono casalinga. Stavamo bene, non ci mancava nulla. Ora abbiamo perso tutto e forse non torneremo mai più a casa. Comunque vada, la nostra vita è finita”.