Da Baghdad - Un'occasione più unica che rara: partecipare a una Messa nell'ambasciata Usa di Baghdad. Detto così pare poco, ma poco non è. A Baghdad c'è Baghdad. Dentro Baghdad c'è la Green Zone (Zona Verde) superblindata, dove vivono quasi tutti gli stranieri, quasi tutti i diplomatici e molti degli alti papaveri dell'attuale regime. Dentro la Zona Verde c'è l'ambasciata Usa, che nei progetti originari poteva contenere oltre 15 mila persone e adesso ne ospita circa 2.500. Una sorta di città fortificata nella città fortificata della città delle bombe, per intenderci.
Quella di Baghdad è la più popolosa ambasciata Usa del mondo. Non tanto per numero di diplomatici (quella dei Cairo ne ha di più, per esempio) ma per tutti i servizi accessori che le servono in un ambiente così ostile: per dire, una stazione dei pompieri, un piccolo ospedale, un piccolo eliporto (per andare all'aeroporto, dove c'è comunque una pista riservata al traffico Usa, i funzionari americani usano solo l'elicottero), un piccolo aeroporto (due voli la settimana con Amman, in Giordania), negozi (l'ambasciata Usa è di certo il massimo "centro commerciale" della Zona Verde) e un numero congruo di soldati e uomini della sicurezza.
Insomma: entrarvi non è facile, partecipare alla Messa ancor più raro, soprattutto se a celebrarla sono addirittura tre vescovi: il nunzio monsignor Giorgio Lingua, l'arcivescovo latino monsignor Sleiman e monsignor Cetoloni, vescovo di Grosseto. E infatti l'occasione si conferma molto particolare.
Il luogo: il bar della base, rapidamente adattato per il rito settimanale. Dal soffitto pendono i festoni di un party dedicato agli Anni Ottanta (Totally Eighties!!!). Alla porta è appeso un cartello che invita a "non portare armi nel bar durante le ore di apertura". L'europeo un po' occhiuto e schizzinoso, che ha già notato il parcheggio delle mountain bike, l'erba che un ambasciatore del passato ha voluto simile a quella delle villette suburbane, il campo per il frisbee e insomma tutto quanto fanno gli americani per ricrearsi un pezzetto di Usa ovunque vadano, pensa subito ai saloon di certi film western. Ma non può fare a meno di ammirare il solito pragmatismo americano: la vogliamo la Messa? Se sì, facciamola dove e come si può, ma facciamola.
Poco dopo, tra i banchi (cioè le sedie del bar), mi guardo intorno. Quattro o cinque posti più in là, c'è un ragazzone che prega intento, canta sottovoce e al momento della colletta (dedicata a un progetto per gli orfani della Caritas irachena) estrae dal portafoglio una banconota, mi pare dieci dollari. Porta al fianco la pistola.
Una pistola in Chiesa? Nemmeno nel bar, in Chiesa. Lo guardo meglio: ai suoi piedi c'è uno zaino che pare pieno, sulla sedia davanti alla sua è appesa una giacca da campo. Dev'essere arrivato a fine turno, oppure deve attaccare appena finita la Messa. Meglio a Messa con la pistola o non a Messa con la pistola? E poi ci scambiamo il segno della pace. Io e l'uomo con la pistola, che è un soldato, immagino pronto a usarla. Come immagino siano tanti altri dei giovanotti che vedo alla Messa, ben piantati, capelli corti, sguardo attento, pantaloni militari. Intanto la Messa è finita, i celebranti salutano a uno a uno tutti i fedeli.