Fiorello nelle vesti di "don Matteo". Non è una provocazione gratuita, né una blasfemia... (foto Ansa)
Niente paura, non è stata blasfemia. La tonaca del prete cattolico, indossata da Fiorello in apertura del 70 Festival di San Remo, è un simbolo positivo: è quella di don Matteo (Terence Hill) «l’unico Matteo che funziona». Per evitare ogni equivoco, lo Fiorello lo spiega - non si mai, oggi, è tutto interpretazione a modo proprio -, rivolgendosi a papa Francesco come per rassicurarlo.
E’ cosa seria, tra l’ironico e il faceto, l’annuncio iniziale – pace, più pace tra noi e nel mondo - è realizzato con segni e linguaggio cattolici: "abbiamo bisogno di pace", in un mondo rissoso pieno di polemiche, spesso inutili. Tre minuti, nei quali tutte le battute di Fiorello mostrano un giovane cresciuto in parrocchia: introduce Amadeus acclamandolo con la melodia tipica dell’Alleluia che apre ogni domenica alla proclamazione del Vangelo e chiede perdono per lui “perché non sa quello che fa”.
Poi subito la parola alla musica, perché – come annoterà - Rula: «La musica è un linguaggio universale che parla al cuore della gente anche quando non si capiscono le parole».
Eppure, è essenziale ricevere il messaggio attraverso parole capaci di incidersi nell’anima perché cantate con melodie diverse per ritmo e stili musicali. Tante voci, talvolta discordanti. C’è spazio per tutti, anche per gli opposti che non potranno mai coincidere, ma restano divisi come rette parallele.
Da una parte c’è il menefreghismo di Achille Lauro e la sua voglia di provocare e assomigliare a un alieno: «prenditi gioco di me che ci credo /st’amore è panna montata al veleno/ è una vipera in cerca di un bacio». Senza che manchi il riferimento “religioso” nello spogliarsi del vestito sontuoso da imperatore (come un novello Francesco d’Assisi nella piazza dell’Ariston) per restare "quasi in mutande". Dall’altra c’è la responsabilità di combattere e di imparare a rialzarsi sempre, quando gli urti quotidiani ti mettono in ginocchio, alla ricerca della gioia, come in Dov’è di Le Vibrazioni: «e l’odio reso al bene dov’è; mi chiedo dov’è quel giorno che non sprecherai; la gioia dov’è, dov’è».
La giuria demoscopica ha giustamente premiato questo brano che lavora sulla possibilità del riscatto e del lavoro duro per potercela fare per guadagnare lo scopo vero della vita di ogni uomo che è la felicità.
Al Bano e Romina Power insieme a Sanremo, 25 anni dopo l'ultima registrazione insieme. Un simbolo che parla di riconciliazione (foto Ansa)
La vera resilienza: quei giovani fuori dagli stereotipi, da Tecla a Leo Gassman
La resilienza è, d’altronde, un motivo centrale non solo della canzone di Rita Pavone - «non hai saputo spezzarmi, travolgermi/ e il tuo vento non mi piegherà/ mai più / I love you» - ma soprattutto di Tecla, la giovanissima di sedici anni che canta un testo di rara sapienza, frutto di una maturità umana che si guadagna col tempo e che a prima vista nessuno potrebbe riconoscerle: «ci vuole forza e coraggio/ lo sto imparando vivendo ogni giorno questa vita/ la verità, siamo candele nella notte… siamo petali di vita e la violenza non ha giustificazione».
Passaggi importanti, decisamente profondi, come quando distingue tra “amore” e “dipendenza” (da non confondere) e osserva giustamente «a volte “uomo” non vuol dire “essere umano” per tutto il sangue che è stato versato». In realtà, l’umano dell’uomo pendola tra la barbarie più oscura della sopraffazione e dello sfruttamento degli altri e l’altezza sublime di un amore che sa spingere il dono della vita fino a morire per altri e decide di avere cura di altri, solidarizzando anche a costo di sacrifici. Così Tecla propone di capire «che comunque dal dolore si può trarre una lezione». E perché una ragazza di 16 anni non potrebbe dare una lezione di vita come questa? Certo bisogna uscire fuori dallo stereopito che vuole i giovani abitati dal nichilismo, in preda al non senso di un futuro senza luci e speranze.
Anche Leo Gassmann, figlio d’arte, non vuole arrendersi davanti alle persone (spesso adulte) che sminuiscono i giovani perché fragili, che non credono nelle loro capacità e non danno oro fiducia. In Va bene così vuole accettare errori, fallimenti e cadute, ma della necessità di procedere e andare avanti e combattere ancora per mostrarsi al mondo per quello che si è, per quello che sai fare, senza costruirsi maschere da nulla imposte dal perbenismo sociale in un apparire svilente nel quale alla fine fine appare solo il “non credere in niente”, in aver progetti nella vita. E se crollare fa male, si ritorna a sognare, perché l’artista è come «un bambino che non vuole mollare», perciò «non ti devi arrabbiare per ciò che non sai fare».
La città dei giovani (cioè la condizione giovanile odierna) appare devastata – così gli Eugenio in via di gioia in Tsunami – dalla realtà virtuale che sembra trasportarli in un mondo inesistente. Si pronuncia il verbo “essere” con insistenza, ma si tratta del “nulla”, di apparenza fittizia - «siamo rimasti soli; siamo le nostre vite nei corpi degli altri; subito dopo il flash noi siamo scomparsi; siamo disorientati, siamo affondati, siamo quadrati e, mentre tutto intorno affonda qui si balla». Analisi corretta, per niente esagerata, cruda, alla portata di tutti. È questa l’esperienza. Ma l’isolamento fa soffrire, proprio oggi nel tempo della massima (inter-)connessione: «sempre più vicini non è vero che parliamo»; si dorme poco o niente anche se gli occhi sono chiusi. Non è vero quello che appare. Ecco il problema, non c’è corrispondenza con la realtà per quello che si vede in giro. C’è un crollo morale da riconoscere: «guarda lo Tsunami che travolge la città, dentro la mia testa calma piatta». E allora l’appello è a reagire, mostrandosi per quello che si è («nudi alle persone», cioè senza vestiti artefatti e cangianti per ingannare sulla propria identità): «noi siamo liberi di urlare in faccia al mare /tornare cerchi e rotolare/ metterci in ballo e rischiare». È un messaggio che osa cercare una nuova “forma la giusto” e se si tratta poi di naufragare, almeno lo si faccia “nel gusto”.
Si, perché ciò che obiettivamente c’è di disgustoso è proprio questa inerzia che blocca la vitalità e le energie dei giovani di oggi che devono ritornare nelle piazze a urlare il loro diritto un futuro felice, dove le lacerazioni sono ricomposte. Ecco allora perché la presenza “unita” della famiglia Carrisi (Romina Power, Al Bano e la figlia) può essere vista come un simbolo importante per i giovani. Nella canzone riproposta - La felicità - si è potuto cantare con maggiore autenticità: «devi crederci ci sarà un mondo migliore, più umano, diverso per dirti ti amo». È possibile la riconciliazione, anzi è doverosa. E questo diventa speranza per le nostre società lacerate dall’odio, dalle divisioni, dai sospetti gratuiti e dalla percezione che lo stare insieme non può durare. La nuova canzone di Romina e Albano - Raccogli l’attimo - ora può mandare un messaggio inequivoco: «amami come fosse il primo giorno insieme, in un’alba che non si può dimenticare». E qui il linguaggio dell’amore cerca parole che dicano il per sempre di quell’attimo, la sua definitività.
Diletta Leotta e Rula Jebreal. Non solo vallette (foto Ansa)
L'altra musica del Sanremo delle donne (non solo vallette)
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Per questa via, Sanremo canta anche un’altra musica, oltre le canzoni in gara e le loro parole, come è accaduto ieri sera con i monologhi delle “vallette” (ruolo delle donne che sta stretto ormai alle donne), Rula Jebreal e Diletta Leotta. Il tentativo riuscito è stato quello di mostrare che la bellezza femminile non è contorno estetizzante, ma è estetica dell’anima femminile che uno sguardo sul mondo e sulla vita di cui c’è bisogno per salvare l’umano dell’uomo oggi. È invece la proposta dei grandi valori umani della vicinanza e della cura a costo di ogni sacrificio che sa godere anche dell’aspetto esteriore (perché non è secondario) quando c’è – per Diletta Leotta «la bellezza capita, non è un merito» -, ma vuole andare ben oltre, costruendo bellezza del cuore, bellezza interiore, come ha insegnato la nonna. Essere bella non è allora un peccato, certo, ma c’è un’altra bellezza più grande da mostrare, come quella di Rula Jebreal, la giornalista impegnata per i diritti umani a livello mondiale. Il suo monologo contro la violenza alle donne (statistiche di femminicidio alla mano: «il carnefice ha le chiavi di casa») non ha avuto niente di politico, ma ha emozionato tutti e tutti portati a condivisione.
Il Palco dell’Ariston si è allora trasformato in un tempo prezioso per “prediche importanti”, prediche laiche, non per questo inaccettabili, essendo “vere”: «noi donne vogliamo essere musica; è possibile trovare le parole giuste per raccontare l’amore in tante canzoni». Si deve lottare anche quando diranno che non è opportuno, così le parole non saranno solo cantate, ma vissute ogni giorno.