Caro don Stefano, Benedetto XVI è deceduto poco prima del decennale delle sue storiche dimissioni, avvenute l’11 febbraio 2013. Ricordo quel giorno in cui tutti i telegiornali parlarono di una dichiarazione fatta in un giorno ordinario, credo durante un Concistoro, e in lingua latina. La notizia si è diffusa come un fulmine a ciel sereno. Confesso un mio profondo senso di smarrimento di fronte a dimissioni così dirompenti che ci lasciava orfani della guida spirituale della cattolicità. Questo mio disorientamento si è ripetuto il 31 dicembre scorso, quando il Papa emerito è morto nella sua dimora in Vaticano. Sentirò la sua mancanza. Mi affascinava di lui quella grande profondità di pensiero, quella capacità di ragionamento unita a quella di comunicare concetti così difficili, a cavallo tra filosofia e teologia, con parole impegnative ma comprensibili, se si accettava la sfida di approfondirle. Credo che come pochi abbia capito il nucleo essenziale della nostra attualità, cioè la radice culturale malata di questi tempi che stiamo vivendo, caratterizzata da un individualismo radicale che tende a spezzare i legami sociali e a rendere l’uomo drammaticamente solo. Spero che tutti i fedeli, ma soprattutto i sacerdoti nella loro predicazione, non si dimentichino di questo gigante del pensiero cristiano, che ha saputo parlare anche con i non credenti. SIMONE
Caro Simone, come ogni Papa anche Benedetto XVI nei suoi anni di pontificato ha colto il segno – o meglio i segni – dei tempi in cui ha esercitato il suo magistero. La “dittatura del relativismo”, che denunciò nella Messa che ha presieduto prima di entrare nel Conclave che poi lo avrebbe eletto, è uno di questi. Il relativismo, in nome della libertà individuale, nega per principio la verità. Dice che non esiste, o meglio che ognuno ha la sua. E tanto basta. È il principio dell’individualismo, appunto. La verità per Ratzinger non era, come è stato invece ingiustamente accusato di dire durante i suoi anni da Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, una clava con cui colpire chi a quella verità non crede, ma piuttosto un orizzonte verso cui dirigersi. La verità per lui era come la stella polare, così vicina eppure così lontana; mentre ti sembra di poterla toccare con un dito, in realtà è sempre oltre. Esiste, la devi sempre sperare e la puoi persino intravvedere, ma ti chiede un cammino di avvicinamento che non deve mai avere fine; esige un pellegrinaggio interiore che è condizione stessa del desiderio che ne abbiamo.
Richiede testa e cuore, anima e corpo. A esattamente 10 anni dal suo atto di rinuncia, coraggioso e molto sofferto, forse oggi possiamo inquadrarlo proprio in questa prospettiva. Un passaggio che gli ha permesso di fare verità su se stesso e su quello che il Signore gli chiedeva.
Anche la data da lui scelta per quell’annuncio così dirompente nella storia della Chiesa, l’11 febbraio, memoria della beata vergine di Lourdes e Giornata del malato, ci dice che la debolezza fa parte della verità dell’uomo, che la fragilità accettata e affrontata a viso aperto, assumendosi quando occorre anche gravi responsabilità, porta l’uomo ad assomigliare a Gesù, alla Verità crocifissa per amore. Credo che sia stata questa la sua ultima grande catechesi che ci ha lasciato in eredità. Per questo, a un normale senso di smarrimento, deve seguire la certezza che Dio ci ha parlato nella storia attraverso questo grande uomo, Joseph Ratzinger, e che Lui non ci lascia soli. Papa Francesco ne ha rilevato l’eredità e ci sentiamo ora accompagnati dalla sua ferma mano in questo tempo di gravi incertezze per tutta l’umanità.