Almeno oggi, 25 anni dopo, facciamo ora e per sempre un piccolo sforzo: mandiamo a memoria questi tre nomi. Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani. Perché non abbia più ad accadere, come ancora è accaduto in tanti incontri pubblici di questi giorni, che quando si tratta di nominarli sguardo e mente brancolino nel vuoto alla ricerca di un appunto da sbirciare, quasi sempre senza occhiali, con l'esito o di storpiare i nomi o di rifugiarsi nella scorciatoia inanimata della scorta.
E' vero erano tre uomini, agenti della Polizia di Stato, della scorta di Giovanni Falcone, erano discreti per dovere e sono passati inosservati, erano i tre che non sono tornati interi. Alla lettera. Li hanno raccolti a pezzettini, li hanno riconosciuti dalle mani. Il 23 maggio 2017 è tornata a Palermo la Quarto Savona 15 il nome in codice della loro auto, guardatevi le immagini da qualche parte, avrete un'idea vaga di che cosa è stato di loro, presi in pieno da una carica di 500 chili di tritolo.
A 25 anni di distanza meritano almeno che si faccia la fatica di ricordare come si chiamano - devo averlo detto altre volte in questi anni, ma a giudicare dalle esitazioni di questi giorni non è servito -. Chiamarli soltanto "la scorta", anche più gentilmente ridurli ad "angeli custodi" è spogliarli della loro fisicità, della loro integrità anche fisica: una scorta vale l'altra, tre uomini no. Una scorta non ha affetti, mogli, madri, figli, padri, tre uomini sì: li avevano e li hanno lasciati. Il nome è il primo dei diritti fondamentali assieme a quello della dignità. Glielo dobbiamo, un dovere morale. Almeno oggi e di qui in poi.
E lo stesso dobbiamo fare con questi cinque: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina. Erano la scorta di Paolo Borsellino.