Si può morire così, per caso, in una notte qualunque per colpa di un incontro sbagliato, per farsi rubare due cuffiette?
Questo è bastato a un 19enne, Daniele Rezza, per accoltellare a morte Manuel Mastrapasqua, 31 anni. Un’altra persona, un altro essere umano che viveva poco distante da lui. Per cosa? Questa volta non possiamo archiviare il caso con i soliti “futili motivi”. C’è molto di più. L’assassino, sotto l’effetto dell’alcol, appena ha visto un passante ha avuto l’impulso irresistibile di prendergli tutto, cominciando dalle cuffiette. Ne è nata una colluttazione terminata con lo spietato omicidio.
Anche quello che è successo l’indomani mattina è sconcertante, se sarà confermato dalle indagini: il padre ha cercato di coprire il figlio, prima convincendolo che non era stato lui, poi sbarazzandosi delle cuffiette rubate.
Che differenza c’è tra la vita e la morte? Tra il bene e il male?
Domande semplici, quasi scontate, a cui non possiamo sottrarci dinnanzi alla banalità dell’odio cieco e casuale di un giovane come tanti, che incontriamo per strada ogni giorno. Fermato dalla polizia, si è difeso sostenendo di non essersi accorto di aver colpito a morte la sua vittima. Il suo gesto, in fin dei conti, era una semplice coltellata. Non c’era l’intenzione di uccidere…
È proprio questo distacco tra pensiero e realtà che ci terrorizza, che ci scuote e ci lascia sgomenti. Esistono giovani per cui non c’è alcuna differenza tra quello che è reale e quello che non lo è, tra quello che è giusto e quello che giusto non è. Giovani che non sanno pesare la portata delle proprie azioni, che hanno smarrito il senso delle proprie scelte, per i quali sembra che non esistano conseguenze per le parole e i gesti che compiono ogni giorno. Non sono zombie, non vengono da un altro pianeta, né sono dei cyborg che ci troviamo improvvisamente a dover combattere come in un film distopico.
Sono figli di una società che tutti abbiamo costruito fin dall’inizio di questo terzo millennio, dimenticando di trasmettere loro quei valori universali di fratellanza e umanità che i nostri genitori e i nostri nonni ci hanno trasmesso nel secolo scorso, conquistati a caro prezzo in un secolo di guerre tragiche. Guerre le cui scene oggi – in Ucraina, in Medio Oriente e in cento altre guerre “dimenticate” – rivediamo in televisione come in un film già visto.
Ci risvegliamo oggi dal torpore, rendendoci conto di quanto abbiamo faticato – e forse a volte fallito! – nel tradurre quei valori a favore dei nostri giovani. Un distacco che, alla lunga, ci ha portato a fare i conti con il terrore sotto casa.
In questi ragazzi c’è una dimensione per cui il sentimento di empatia è venuto a mancare, spesso perché non li abbiamo educati a livello affettivo a vedere l’altro non come oggetto, ma come persona. La violenza cieca e immotivata nasce da questa carenza di umanità. Il mondo digitale favorisce questa dinamica di straniamento. L’umanità si nutre, infatti, soprattutto nella fase della crescita, di rapporti “in presenza”, di dinamiche di affinità e conflitto, di concordia e discordia, di sviluppo della capacità di gestire le frustrazioni e di mediare nelle situazioni, arte fondamentale nella vita che si impara fin da piccoli.
Va recuperata l’educazione all’affettività e a relazioni sane per evitare che i nostri giovani, all’improvviso, si trovino di fronte a emozioni che non sanno elaborare e gestire e che, magari solo in casi estremi, li portano a sfogare l’angoscia con il suicidio (sempre più frequente fra i giovani) o con la violenza contro sé stessi e contro gli altri.
Allargando il discorso, forse non ci siamo accorti che molti ragazzi hanno perso per strada la dimensione della corporeità, fenomeno che il lockdown a cui li ha costretti la pandemia, confinandoli al chiuso di una camera per mesi davanti a un PC, ha fatto emergere in tutta la sua gravità. Cosa ci urlano i tanti adolescenti che si praticano tagli sul corpo, che rinunciano al cibo, che sono in analisi, quando non ricoverati nei reparti psichiatrici, se non che stanno male? Che forse non li amiamo abbastanza così come sono, cioè meravigliosamente imperfetti (come eravamo noi alla loro età)?
Tra genitori che gli chiedono di essere come vogliono loro per guadagnarsi il loro amore, tra una società che li giudica bamboccioni e insieme gli impone standard “prestazionali” alti, tra gli influencer che li martellano perché se non sei perfetto non meriti di esistere, l’effetto è quello che tutti abbiamo sotto gli occhi: la solitudine, il senso di inadeguatezza, l’incapacità di trovare un senso alla vita.
Vivono, così, da spettatori esterni, situazione che impedisce loro di condividere con gli altri le emozioni e i dolori che la vita propone, le separazioni che devono subire dai loro genitori, i lutti, le delusioni. I ragazzi vanno, invece, resi protagonisti: la scuola, la famiglia, le associazioni, la stessa Chiesa devono aiutarli in questo, anche se è tutt’altro che facile.
Manca, peraltro, – e questo ci interroga e ci provoca come Chiesa – in molti di loro un minimo barlume di fede, che possa fornire l’innesco per cercare il senso profondo di cosa ci stanno a fare al mondo; manca spesso il rapporto con i genitori, che fin da piccoli li giustificano e coprono in tutto, non addestrandoli al senso di responsabilità personale; mancano relazioni sane con i coetanei, con gli educatori dei vari ambienti di vita.
Questo non riguarda, ovviamente, tutti i nostri ragazzi, ma sotto la punta dell’iceberg che emerge nella cronaca nera esiste un arcipelago di problemi psicologici che sono in aumento: il tema della salute mentale dei ragazzi era impensabile solo fino a pochi anni fa. Oggi è un’urgenza.
I segnali di disagio vanno raccolti subito, capiti precocemente, perché tantissimi altri casi, se non esplodono in rabbia esterna, spesso si consumano nelle solitudini disperate vissute al riparo della propria stanza, davanti allo schermo di un PC o dello smartphone, vissuti come vie di fuga dalla realtà e come iniezioni di dopamina per lenire quell’interiorità sofferente che chiede solo di essere ascoltata e accolta. Lasciando così i nostri ragazzi senza mezzi per interpretare il mondo, per dargli un senso, per immaginare un futuro e una vita buona da perseguire, per governare e disciplinare le loro emozioni, che a una certa età – da che è mondo – esplodono come segno che è tempo di aprirsi alla vita.
Se non saremo capaci di aiutarli a vivere con equilibrio le loro emozioni, avremo in un futuro prossimo una società fragile, individualizzata, disperata.