L'occasione di diventare un Paese migliore, diverso, europeo davvero, l’abbiamo avuta, in quanto Italia, vent’anni fa. Dopo una classe politica travolta dal malaffare, dopo Capaci e Via D’Amelio, nessuno che avesse l’età della ragione poteva chiamarsi fuori, far finta di non aver visto o sentito. Oggi vent’anni dopo sappiamo che quell’occasione l’abbiamo, tutti, irrimediabilmente perduta. La Corte dei conti ripete da anni che la corruzione è decuplicata da allora, le inchieste sulla criminalità organizzata da Nord a Sud rivelano che quella che Sciascia chiamava la linea della palma è inesorabilmente salita lungo la penisola.
Le due cose, corruzione e mafie, non sono disgiunte: i bilanci truccati producono fondi neri, i fondi neri producono mazzette, le mazzette servono a corrompere e a truccare gli appalti che si sa a chi vanno e fanno gonfiare il prezzo delle opere pubbliche, sostituendo il merito con il favore.
Che si è fatto in questi vent’anni contro questo? Niente di serio. Il falso in bilancio rispetto al 1992 è stato sostanzialmente depenalizzato. La cosiddetta legge ex Cirielli, che ha dimezzato i tempi di prescrizione rendendo la caccia ai corrotti - già difficile vent’anni fa- un rimestare acqua nel mortaio, è ancora lì. Neanche la famosa legge Severino anticorruzione ha cambiato qualcosa di sostanziale in termini di falso in bilancio e prescrizione, in compenso ha complicato la vita alla Corte di Cassazione “spacchettando” la concussione, altro reato tipico dei pubblici ufficiali, parente stretto della corruzione.
In un Paese normale tutto questo, che succhia sangue all’economia già asfittica, facendo finire soldi di tutti nelle mani sbagliate e scoraggiando gli investimenti stranieri, starebbe sempre al centro del dibattito pubblico. E invece qui perché se ne parli ci vuole un’inchiesta della magistratura o, se del caso, la denuncia di un Papa che chiama le cose con il loro nome. Ma dura sempre lo spazio di un mattino. Il giorno dopo la nostra classe dirigente torna a guardarsi l’ombelico.