Il film su Craxi ad Hammamet di Gianni Amelio mi ha molto incuriosito, avendo avuto la ventura di intervistarlo nel febbraio 1999 proprio nel suo rifugio magrebino, la celeberrima villa Europa, un bella dimora in verità non particolarmente sontuosa, senza nemmeno la vista sul mare, ingombra di quadri e vasi da lui stesso creati per sfuggire alla noia e altri oggetti del luogo. Tutto accuratamente ricostruito dal regista: ho ritrovato persino i vasi, pitturati di bianco rosso e verde, da lui intitolati "L'Italia che piange".
L'ex leader socialista fu molto ospitale e gentile, anche se un po' burbero, come nel suo carattere: mi venne a prendere in albergo su un'auto dei servizi segreti tunisini (la stessa Mercedes nera che si vede nel film) e durante il viaggio verso la sua villa mi disse vita, morte e miracoli - prendendo spunto dal mio cognome - di Augusto Anfossi, uno degli eroi delle Cinque Giornate di Milano. Era una sera eccezionalmente fredda. Parlammo intorno a un tavolo circolare, allagato di ritagli di giornale e atti giudiziari, su cui spiccava al centro un Codice penale, come una specie di frangiflutti. La moglie Anna se ne stava in cucina discreta, ascoltando il Tg4 di Emilio Fede. Quando cominciò ad addentrarsi nei meandri dei rapporti tra Stato e Chiesa, da brusco e burbero che era, dimenticò la ritrosia e allargò le ali come l'albatros della celebre poesia di Baudelaire, non più goffo, ma maestoso e leggiadro, volando ad alta quota sui rapporti con i pontefici e sulla differenza tra l'atteggiamento democristiano e quello socialista nei confronti del Vaticano.
Da grande appassionato di esteri (nella Prima Repubblica la conoscenza e l'esperienza delle relazioni internazionali distingueva i cavalli di razza da tutti gli altri) mi spiegò che anche l'elezione di un pontefice è sempre il risultato di una valutazione geopolitica dei cardinali, i quali desiderano che la Chiesa entri in gioco nel momento storico particolare. E proprio per questo, a proposito di papa Wojtyla, mi confidò divertito "off record" che ne aveva previsto - o quasi - l'elezione. "Durante il conclave dell'ottobre 1978", rievocò con uno dei suoi sorrisi un po' enigmatici, "io ero qui, ad Hammamet, con la mia famiglia. Ricordo che durante una delle fumate nere dissi senza esitazione: sarà un polacco". Poi tornò quello di prima: "Ora basta. Ti ho detto tutto. Ti dispiace se non ti riaccompagno all'hotel?".
L'interpretazione di Pierfrancesco Favino è da Oscar e ha dell'incredibile per la somiglianza con il protagonista, per quanto riesce ad imitarne voce, aspetto, movimenti. E' come se si fosse incarnato in lui. La sceneggiatura è un po' irrisolta, vagamente onirica, un po' troppo intimista e non restituisce il clima di allora. Un clima assolutamente giustizialista, che esaltava i giudici di Mani Pulite come degli eroi catartici, liberi di fare quello che volevano, perfino di fermare con un intervento in televisione il famoso decreto ribattezzato "salvaladri" che Scalfaro si rifiutò di firmare. Come mi disse Martinazzoli in un'intervista, il pendolo del potere - che nella storia d'Italia ha sempre oscillato tra politici e giudici - a quel tempo era fermo sulla magistratura. Forse fu allora che iniziò la crisi del Parlamento. Quanto ai metodi di indagine, probabilmente si indugiò troppo sull'uso della custodia cautelare, anche perchè, come insinua Craxi nel film, chi parlava e faceva nomi veniva scarcerato mentre chi se ne stava in silenzio rimaneva a San Vittore. Non parliamo poi dell'esposizione in pubblico delle manette, come avvenne per il democristiano Enzo Carra, ripreso con gli schiavettoni come un forzato della Cayenna davanti a Palazzo di Giustizia, e l'assessore regionale socialista Michele Colucci, esposto alla gogna dei fotografi e delle telecamere mentre entrava su una lettiga in un'ambulanza, nel cuore della notte, davanti a una caserma della Guardia di Finanza, dopo un interrogatorio interrotto da un malore. Non sono cose da Stato di diritto. Per la cronaca, anzi per la storia, Carra e Colucci sono stati assolti anni dopo con formula piena. Non avevano commesso alcun reato.
Il Craxi intimo, sofferente e centrato sugli aspetti familiari del film è struggente e poetico. Merito della capacità del regista, maestro nel tinteggiare l'animo umano utilizzando anche lo sguardo innocente dei bambini (come nell'interpretazione del nipotino). Va anche detto che Craxi nel suo buen retiro tunisino si immedesimò un po' troppo con Garibaldi. In realtà non era in esilio, era ahimé latitante, con due condanne in giudicato per finanziamento illecito ai partiti e corruzione. In Tunisia non c'era l'estradizione e i magistrati non ricevevano nemmeno risposta alle rogatorie. L'allora pubblico ministero di Mani Pulite Davigo mi raccontò che per una di queste da Milano ricevettero risposta dai colleghi di Tunisi l'invito a non disturbare più, che avevano cose più serie da sbrigare e non avevano tempo da perdere. Hammamet insomma non era Caprera. Probabilmente ci viveva come un leone in gabbia. Fuori vigilavano le "Tigri", le teste di cuoio tunisine. E un giorno che assetato di libertà scavalcò il muro di cinta eludendo la sorveglianza, al suo ritorno ricevette una telefonata di ammonimento del presidente Ben Alì, suo amico, protettore e custode. Non avrebbe dovuto più farlo. L'uccellino doveva rimanere nella sua gabbia dorata.
Che poi il finanziamento illecito ai partiti fosse qualcosa di innocente, una sorta di peccato veniale legalmente sancibile ma moralmente non ascrivibile, è tutto da dimostrare. E' vero, era un reato che non prevedeva la detenzione (e infatti di solito veniva accompagnato da quella molto più grave di corruzione). Ma a parte il fatto che - come dice uno degli interpreti del film "anche se prendevamo tangenti per il partito qualcosa attaccato alle dita rimaneva" - non bisogna dimenticare che riuscire a garantire finanziamenti illeciti per l'apparato veniva ricompensato in termini di carriera politica. Le mazzette insomma significavano potere per sè stessi. Era solo una valuta diversa.
Post scriptum: le dichiarazioni del suo amico Silvio Berlusconi ("la patria con lui fu ingrata, perchè lo costrinse a morire in esilio"), giungono a mio parere un po' tardive. Durante la sua permanenza ad Hammamet il Cavaliere - prima e dopo la sua discesa in campo - non fece molto per esporsi in favore del suo testimone di nozze. Ma forse siamo noi che abbiamo poca memoria.