DIARIO DI BORDO - 4° GIORNO - 19 novembre 2023 -
La nostra giornata di domenica 19 novembre si è aperta con l’arrivo alle 7 del mattino al porto di Casablanca. Nella notte abbiamo superato le Colonne d’Ercole, quello che oggi sulle cartine è segnato come Stretto di Gibilterra, e dopo alcune ore di navigazione abbiamo raggiunto l’Africa. Lo sbarco è avvenuto alle 9 e subito ci siamo messi nei 10 pullman che ci hanno portato a Rabat, capitale del Marocco.
Questa nazione nordafricana è una delle tappe fondamentali del nostro pellegrinaggio, perché nella sua quotidianità mette a tema le buone relazioni musulmano-cristiane. Questa giornata ci ha fatto, infatti, sperimentare – in un tempo critico dove a 5000 chilometri più a est, in Israele e nella Striscia di Gaza, si combatte e si uccide anche in nome di Dio – cosa significhi convivere pacificamente fra popoli con religioni diverse. In Marocco è innanzitutto presente una grande comunità ebraica, con le sue sinagoghe che sorgono tra i palazzi delle città costiere: Casablanca, Rabat, Agadir e Tangeri, ma anche Marrakech e Fez. Nessuno si sogna di minacciarli. Ma in quelle stesse città a maggioranza musulmana (a questo proposito: bellissimi a Rabat il mausoleo di Muhammad IV e la fortezza che dà sul mare che abbiamo visitato) anche piccole chiese locali, formate da alcune migliaia di fratelli e sorelle, per lo più provenienti dalle nazioni subsahariane, che vivono qui per motivi di studio: ragazzi e ragazze molto volenterosi, che frequentano le locali università, spesso con borse di studio dei loro paesi o di grandi istituzioni, e che formeranno la classe dirigente del futuro.
Vederli cantare in coro e pregare nella cattedrale di Rabat alla Messa delle 11 è stato per tutti molto edificante e motivo di speranza. Una Messa durata un’ora e mezza, e volata via in un battibaleno. «Da noi in Europa deve durare al massimo 45 minuti, sennò la gente scappa», mi ha confidato sorridendo subito dopo l’omelia il cardinale Cristóbal López Romero, l’arcivescovo locale di origine spagnola che ha presieduto l’Eucaristia. «Qui non può durare meno di un’ora e mezza». Vero. Che bella la chiesa africana, giovane, entusiasta, che ancora ben conosce la gioia dell’incontro con il Signore e tra fratelli nel dies Dominicus! Abbiamo imparato così sul campo e senza tanti discorsi cosa vuol dire “sinodalità”: il piacere di amarsi e rispettarsi, mettendo al centro il Signore.
Al termine della Messa Monsignor Cristóbal ci ha intrattenuti alcuni minuti in chiesa dopo l’Eucaristia, raccontandoci la missione della sua diocesi in terra musulmana. Ci ha messi innanzitutto in guardia dalla depressione ecclesiale, quella sorta di malinconia che sta spegnendo il fuoco nelle chiese europee, convinte di essere alla fine. «No, la Chiesa è sempre viva», ci ha ammoniti, «perché vive nella speranza del Risorto. E se la viviamo noi qui, piccolo resto, non potete viverla voi nell’Europa cristiana?», ci ha chiesto.
Il prelato ci ha anche illustrato uno degli apostolati più significativi della Chiesa di Rabat, cioè l’educazione. Sono ben 12 le scuole cristiane frequentate solamente da studenti musulmani e gestita da musulmani, ma con principi profondamente umani, e quindi cristiani: perdono, amore, inclusione dei deboli. Per questo chi vi lavora deve firmare una carta d’intenti. Qui la Nuova Evangelizzazione si gioca nel campo della testimonianza.
Alla Messa ha partecipato anche padre Renato Zilio, originario di Dolo (Venezia), che vive a Rabat da molti anni. I lettori di Famiglia Cristiana lo conoscono perché ha scritto la rubrica “Chiesa in uscita” sul n. 47, parlando di una preghiera interreligiosa che si è tenuta l’ultima domenica di ottobre dai padri francescani. Padre Renato lavora con i migranti che arrivano dall’Africa subsahariana per raggiungere Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, cercando di scavalcare il muro di 7 metri che la divide dal territorio marocchino e così raggiungere l’agognata Europa. Nel suo racconto parla di molti ragazzi che scappano dalle loro famiglie, per lo più musulmane, alla ricerca di fortuna. «Molti non ce la fanno», ci racconta. Muoiono nel deserto o affogati nel Mediterraneo. E non tornano più. Ma prima di provarci passano molti mesi a Rabat, senza cibo e senza soldi. Chi li aiuta? La piccola comunità cristiana, che non chiede la conversione in cambio di un aiuto, ma aiuta perché ama.
Guarda la FOTOGALLERY