Tre episodi ravvicinati ci interrogano. A Negrar, nei giorni scorsi Chris Obeng, tredicenne, è stato investito a morte e non soccorso per tempo, un fatto di enorme gravità per cui la persona accusata del suo investimento è sottoposta agli arresti domiciliari. Una gravità che non giustifica però il tentativo di spedizione punitiva da parte di una trentina di persone con il volto travisato giunte a casa dell’indagato con l’intenzione di regolare la questione a sprangate e sassate, fermata sul limitare della porta chiusa solo da una chiamata ai Carabinieri.
Qualcosa di simile è accaduto a Roma in seguito alla morte di Michelle Causo nel quartiere di Primavalle: durante una fiaccolata per ricordare la giovane un gruppo di ragazzi ha fatto irruzione nell'appartamento, vuoto, dell'arrestato devastandolo.
A Torino un imprenditore ha organizzato una festa e radunato gli amici per annunciare il proprio matrimonio, ma quando è giunto il momento di alzare i bicchieri e improvvisare un discorso ha accusato davanti a tutti la fidanzata presente di averlo tradito e annunciato che il matrimonio non s'aveva più da fare.
Tre episodi, diversi, che evocano però tutti un tema ancestrale: la vendetta. Proprio per contrastarne la violenza intrinseca è nato il processo – rito e luogo simbolico, affidato al giudizio di un terzo tra le parti, con procedure più o meno articolate secondo l’evoluzione delle società, in cui distribuire torti e ragioni - per dirimere le controversie ed evitare una spirale violenta di ritorsioni incrociate, potenzialmente senza fine. Il punto non è parteggiare per i torti, ma disinnescare questa spirale. Una necessità di tutte le culture, affinatasi con i secoli progredendo con la presa di coscienza del tema dei diritti dell’uomo, che l’accusato non perde (neppure se responsabile di delitti efferati) e che ha le sue radici addirittura nella Bibbia e nel racconto di Caino e Abele: «Dov’è tuo fratello?». «Nessuno tocchi Caino».
I primi due episodi – a tema penale –, sono, la contraddizione delle conquiste del diritto dal Settecento in poi, cosa che ferisce particolarmente e che si sperava archiviata per sempre nel Paese di Cesare Beccaria, che ha insegnato al mondo a rendere giustizia nel rispetto della dignità dell’uomo.
Da dove viene questa recrudescenza? Difficile dirlo, il dolore di chi perde qualcuno per una tragica imprudenza o per morte violenta pur umanamente del tutto comprensibile non giustifica episodi che contraddicono secoli di cultura giuridica e civiltà, che esiste proprio per evitarli.
Quasi che si fosse persa la capacità di attendere le verifiche, i tempi e i modi della giustizia, che avrebbero certo bisogno di snellimento ma non possono essere immediati, se non al prezzo di diventare sommari, si cerca una via traversa, spiccia: qui e ora, alla maniera della corda all'albero del Far west e delle parole buttate sui social, spesso esito di emotività senza filtri, mai misurate.
Sorge il dubbio che cominci lì la sete di vendetta e prenda di lì la via della pratica. Non ci sono studi a provarlo, ma dà da pensare la coincidenza con lo stile praticato nei processi un tanto al tocco dei cosiddetti haters, gli odiatori da tastiera. Sembra che il passo dalle parole violente agli atti violenti tenda ad abbreviarsi.
I social ci hanno abituato anche all’esposizione, talvolta volontaria talaltra subìta, spudorata del privato. Ed è questo il caso di Torino: una questione privata malamente risolta in pubblico. Vendetta anch'essa, consumata a freddo, che, proprio per il contesto sociale in cui nasce, sembra ancor più difficile da decifrare: si direbbe che si sia perso il contatto con le radici culturali, costruite in secoli di riferimenti comuni.
Una scena degna della Traviata senza nemmeno la toppa di un Germont padre –che mellifluo e ipocrita finché si vuole a quello almeno arriva – intervenuto a rampognare davanti a tutti Alfredo per la piazzata pubblica a Violetta: Di sprezzo degno sé stesso rende, chi pur nell’ira la donna offende... Fino a ieri, fino al video di quella festa vendicativa diventato virale sui social, le avremmo dette scene destinate a restare confinate nel registro a tinte inverosimilmente forti del melodramma.
Se non altro perché alle nostre radici c’era un diverso esempio: Giuseppe davanti alla notizia di un figlio che crede dello scandalo, prima di comprendere e accettare per fede, medita di ripudiare Maria, ma in segreto, per non accusarla pubblicamente. Un garbo di cui la nostra sedicente civiltà sta evidentemente perdendo memoria