Ricorderò a lungo l’incontro tenutosi mercoledì 23 agosto, a Dublino, dal titolo “Celebrare la famiglia e lo sport”, perché di questo a casa mia si parla spesso, e da moltissimi anni. Fin da quando i nostri tre figli hanno cominciato a camminare, hanno anche cominciato a calciare qualsiasi cosa che rotolava, hanno cominciato a correrle dietro. Un maschio e due femmine, ma non c’era nessuna differenza. Così calcio, pallavolo, nuoto (ma anche “lotta libera” tra genitori e figli, sul tappetone morbido che avevamo comprato apposta – unica regola: non vale il solletico sotto i piedi!), fino ad arrivare al Karate, praticato con grande intensità (e buoni risultati: core de padre…) dalla nostra ultima, Susanna, oggi ventiduenne. Non potevo mancare, quindi.
Ovviamente incontro molto affollato, perché il tema attira molto i giovani (ma non solo, a guardare le presenze in sala), e soprattutto perché i nomi erano di grande risalto: tra tutti Ronan O’Gara, per anni capitano della nazionale irlandese di rugby (uno che si vedeva – ed invidiava – in televisione, al Sei Nazioni…). Ma anche Adam O’Mahoney, uno dei più grandi campioni di calcio gaelico (che per l’Irlanda, come passione popolare, è molto più del calcio per noi).
Era presente anche Philip Mulryne, irlandese di Belfast che ha giocato sei anni con il Manchester United, poi con altre squadre in Premier League, e che sette anni fa ha improvvisamente interrotto la carriera calcistica, per “ritrovare se stesso e la propria fede”, e che l’anno scorso è diventato sacerdote domenicano. Di lui è rimasta impressa la grande serenità per la sua scelta, ma anche la convinzione che anche in quegli anni, passati nel mondo del “calcio che conta”, pur con mille tentazioni e cedimenti, una persona può costruire la propria personalità, grazie anche alle proprie radici (la famiglia per prima). Philip ha vissuto lo sport in modo serio, apprezzandone disciplina personale, senso del gruppo, capacità di affrontare gioie e difficoltà, vittorie e sconfitte, e raccontando di un grande Manager, Sir Alex Ferguson, che conosceva per nome tutte le persone, dal magazziniere ai grandi campioni, ne ricordava le famiglie, fino a telefonare alla madre di Philip, durante un periodo di infortunio, “per tenere insieme le cose”. Oppure il ricordo dei grandi calciatori (i “senatori” diremmo noi), come David Beckam o Gary Neville, che accompagnavano a casa i giocatori più giovani (senza patente, quindi) con le proprie auto. Ce li vedete i nostri campioni della Serie A, ad accompagnare quelli della Primavera?
Insomma, anche in contesti “idolatri”, come può essere il calcio professionistico, la presenza di uomini di spessore sa fare ancora la differenza. Ed è stato quasi tenero sentirlo dire: “in quei giorni, a Manchester, mi ero perso, e tutte le cose che compravo mi stavano possedendo. Pregavo tutte le sere, come mi aveva insegnato mia madre, ma tutto si fermava lì”. E invece il Signore ha lavorato nel silenzio, per portarlo, dopo alcuni anni, ad una scelta di vita che, nelle sue parole, gli ha fatto capire “la differenza tra quella che chiamiamo la felicità e la gioia vera”. E così il tema dell’Incontro Mondiale, la gioia, è tornato prepotentemente alla ribalta, anche attraverso l’esperienza dello sport.
Infine, è intervenuta anche una donna, Olive Foley, con un suo percorso tutto particolare; ma del suo intenso intervento, e della standing ovation che tutto il pubblico le ha tributato, in piedi, meglio parlare in un altro post.
In alto Philip Mulryne oggi e nel 2011 in campo con la maglia della nazionale dell'Irlanda del Nord (fonti: Facebook, Life After Football: Fr. Philip Mulryne / Norwich City FC; Reuters, Action Images / Alex Morton)