Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
sabato 26 aprile 2025
 

Disabilità: saper “vedere” oltre per costruire una società giusta

Gentile don Stefano, da tanti anni mi occupo di integrazione degli studenti con disabilità nei diversi ordini e gradi scolastici, ivi compreso, dal 2002, l’ambito universitario, e sono fiero di essere italiano considerando che il nostro Paese è stato il primo al mondo a eliminare le scuole speciali e le classi differenziali (classi tuttora presenti negli Stati Uniti e in molti Paesi europei). Maestri di vita come Maria Montessori e don Lorenzo Milani hanno guidato il nostro Paese nel considerare la “diversità” una ricchezza e nel riconoscere nel soggetto con disabilità una persona con potenzialità che devono ancora emergere. Tuttavia lo stigma nei confronti delle persone con disabilità, e in particolare con deficit intellettivo, continua a sussistere anche da noi. Esiste, purtroppo, il pregiudizio secondo cui il soggetto con disabilità, in particolare psichica e psichiatrica, in virtù del suo deficit, appartenga a una specie di “umanità inferiore”. Tali soggetti, più che tanti altri individui con disabilità, sono stigmatizzati dalla società in quanto ritenuti non solo svantaggiati ma anche “infantili”, caratterizzati da quel “ritardo” che un tempo ne definiva la diagnosi e oggi costituisce, per lo più, motivo di offesa e scherno. Questa condizione è di ostacolo per il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali (previste nella Costituzione e nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità) e rende difficile l’emergere delle potenzialità individuali, certamente presenti in essi, ma indubbiamente offuscate. Dignità, motivazione e autostima rischiano, pertanto, di essere negate e calpestate, nel momento in cui il soggetto con disabilità è considerato incapace di sostenere alcun tipo di apporto alla società, in particolar modo se adulto. Con il rischio di generare una dolorosa emarginazione. Ho riflettuto a lungo sul concetto di “adultità” della persona con disabilità psichica. Questa, al contrario di quanto si possa pensare, così come per tutti noi del resto, attraversa le diverse fasi della vita.

Esistono modi diversi di concettualizzare l’essenza dell’essere adulto – anche se sono prevalenti i concetti di “individuazione” e “autodeterminazione” – ed esistono modi diversi con cui un individuo, a seconda della propria storia di sviluppo, delle proprie caratteristiche neurobiologiche e delle opportunità che gli sono offerte, realizza la sua particolare “adultità”. Una particolarità della condizione di disabilità è la dipendenza dal contesto. Diventare adulti significa aumentare e migliorare i successi di individualizzazione (cioè di conoscenza di sé) e di separazione (cioè di raggiungimento di una propria autonomia e indipendenza). Non esiste, quindi, una sola “adultità” ma tan- te.

I genitori dovrebbero, quindi, essere mediatori e facilitatori del processo di crescita del figlio con disabilità intellettiva, del suo processo di autonomia, sapendo che l’iper-protezione provoca nel soggetto con disabilità (come del resto anche nel soggetto con sviluppo tipico) un atteggiamento passivo e ne ostacola lo sviluppo, la motivazione, l’autostima e l’autonomia. In tal modo il soggetto con disabilità non può compiere esperienze formative, né mettersi a confronto con gli altri e con se ste so e di conseguenza non è in grado di assumere un ruolo e partecipare alla vita sociale della collettività sentendo (come dovrebbe) di farne parte e ritenendosi protagonista della propria esistenza e del proprio progetto di vita. In tal caso il soggetto con disabilità, come spesso avviene, subisce un danno, non potendo godere dei diritti fondamentali e delle libertà tipiche di ciascun individuo. Sarebbe utile, pertanto, porsi alcune domande: sono in grado di consentire a tale soggetto di riconoscersi adulto dinanzi ai miei sguardi e comportamenti? Sono in grado di immaginare adulto un bambino con disabilità intellettiva e fare in modo che tale immagine si realizzi nel tempo? Infine: sono disposto ad accettare l’idea che il soggetto con disabilità possa diventare un adulto? GIACOMO GUARALDI

Caro Giacomo, grazie della tua esaustiva lettera, che costituisce una provocazione per tutti noi. Le domande che poni alla fine sono un vero esame di coscienza che non possiamo non farci. Vorrei addirittura qui estendere lo spettro delle disabilità anche a quelle fisiche. La storia dell’umanità ci restituisce persone che hanno cambiato e migliorato il mondo. Einstein si dice fosse dislessico e discalculico, Stephen Hawking era paraplegico, lo stesso Hans Asperger mostrava alcuni tratti della sindrome dello spettro autistico da lui stesso individuata. E l’elenco è lungo: persone affette da autismo, da paraplegia, dislessia... capaci di scorgere il mondo in un modo diverso dagli altri, da una prospettiva diversa che ha loro permesso di inventare, scoprire, diagnosticare, ma direi soprattutto “vedere”, qualcosa che i “normodotati” non vedevano, rendendo così il mondo migliore per tutti.

Loro sono la testimonianza che anche in una persona con disabilità esiste un talento (magari la stessa “adultità” che citi tu), a volte addirittura straordinario. Credo che sia il compito di ogni buon maestro – così come di ogni educatore, di ogni medi co, di ogni genitore – tirarlo fuori, non solo per salvare lui ma per salvare se stesso e la società in cui vive.

Un vecchio detto del Talmud suona così: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Mettere la persona con disabilità al centro – e questo vale anche per ogni “povero”: di relazioni, di benessere economico, il barbone, l’anziano solo, ciascuno di noi in alcuni momenti della nostra vita con tutte le miserie che ci portiamo dietro... – conferisce una missione ineludibile per una società civile e per ogni cittadino, quella di salvare l’altro per salvare se stesso dall’egoismo, dall’autoreferenzialità, dalla disumanità (magari imbellettata di buoni propositi e di una coscienza “pulita”). L’emarginarlo (rispondendo, quindi, per esempio, negativamente alle tue domande) favorisce quella “cultura dello scarto” (come la chiama papa Francesco) che è portatrice di morte.

Aprirsi, accettando la sfida, o chiudersi, rifiutandola. Ecco l’alternativa. Se scegliamo la prima strada, occorre saper “vedere” oltre quello che vediamo a occhio nudo in una persona con disabilità: è una ricchezza, come diceva Montessori, e una vera e propria opportunità di migliorare noi stessi e la società. Scegliere la seconda via, emarginandola dai luoghi di cittadinanza attiva (a partire dal mondo della scuola, come purtroppo talora accade), è invece un pericoloso segno di inciviltà: una forma, spesso spontanea e collettiva, di autodifesa dal “pericolo” a cui non si riesce a dare il nome: la nostra paura, che impedisce di evolvere, migliorare, salvarci. Includere e non escludere non è facile né immediato, inutile nasconderselo.

Implica la capacità di convertire il nostro sguardo, di prendere seriamente le domande che poni tu


08 dicembre 2022

 
Pubblicità
Edicola San Paolo