Caro
don Antonio, da moltissimi anni leggo
Famiglia Cristiana, che prima acquistavo
in chiesa e ora ricevo in abbonamento.
Non so se ricorda, qualche volta le ho
anche
scritto, ma per altri motivi. Oggi,
invece,
voglio ringraziarla per il suo editoriale
sul n. 33/2014 e il servizio all’interno
della
rivista sul beato Giacomo Alberione. Immagino
che, all’inizio del suo cammino, il beato
Alberione
(che speriamo diventi presto santo),
abbia
avuto molte difficoltà, soprattutto nei confronti
dell’istituzione Chiesa, per portare avanti
la
sua missione e il suo progetto. Purtroppo, succede
sempre così ai profeti.
Io
sono, come si dice, avanti con l’età, e ricordo
qual era l’atmosfera in molte parrocchie d’allora,
soprattutto di campagna. Mi è rimasto in
mente
un episodio di quand’ero ragazzo, inizio
anni
’50. Ero andato a trascorrere le vacanze dalla
nonna materna nella campagna di Montecatini
Terme. Il parroco di quel paese tuonava che il
cinema
era cosa del diavolo, e faceva peccato
mortale
chi andava a ballare. Per me fu uno choc,
perché
nella mia parrocchia si respirava già un
clima
preconciliare. Bisogna ricordare che, allora,
ai semplici credenti era vietato leggere la
Sacra
Bibbia. Però, quando espressi al mio parroco
il desiderio di leggerla, lui ne fu felice e mi
consigliò
un’edizione curata da Ricciotti.
Ma
non finiva lì. Per esempio, diceva anche
che
non è sicuro che chi si suicidava andasse
all’inferno,
come allora si credeva. E avvalorava
questa
sua convinzione con una citazione di un
personaggio
di un libro di Greene: «Nessuno
può
sapere cosa passa tra l’anima e Dio nell’ultimo
momento». Aveva poi abolito le “classi” nei
funerali,
perché i morti sono tutti uguali. E si
era
persino rifiutato di affiggere sulla porta della
chiesa il decreto di scomunica emanato da Pio
XII
contro i comunisti. Sosteneva che questi, presi uno per uno, erano delle brave persone. Il male andava tagliato alla radice, e la radice era la dottrina comunista, che negava Dio e la libertà della persona. Su questo non faceva sconti. Inoltre, vivendo vicino a Firenze, aveva avuto la possibilità di conoscere figure straordinarie come Davide Maria Turoldo, Ernesto Balducci e Giorgio La Pira. Tutti precursori del concilio Vaticano II, che arrivò pochi anni dopo con Giovanni
XXIII. E le cose cominciarono a cambiare.
Quando mi sposai, nel 1965, c’era un altro parroco, meno istruito e più semplice, ma come dono di nozze regalò a me e a mia moglie una copia della Sacra Bibbia, proprio quella che porta la presentazione di don Alberione, pubblicata se non sbaglio nel 1958, “prima” del Concilio. Naturalmente in casa mia le Bibbie si sono sempre succedute, da quella monumentale della Saie alla Bibbia del 2000. Se si pensa che il beato Albe-rione iniziò il suo difficile percorso nel 1914, si può dire che non è stato solo un precursore, ma un vero profeta, uno che sapeva leggere i “segni dei tempi”. E portava la Chiesa fuori dalle sacrestie, entrando in tutte le case e “parlando di tutto cristianamente”, come fece poi, una ventina d’anni dopo, con Famiglia Cristiana.
Per questo ho sentito il bisogno di ringraziare lei, direttore della nostra rivista, e tutta la San Paolo per l’opera di evangelizzazione che, sull’esempio del Fondatore, portate avanti nel mondo, sapendo scrutare i “segni dei tempi”.
Non c’è dubbio che il beato Giacomo Alberione si possa e si debba annoverare tra i più grandi profeti del secolo scorso, per aver dato alla Chiesa – come disse Paolo VI – «nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con mezzi moderni». Alberione fu un precursore del concilio Vaticano II, che ha aperto la Chiesa al mondo, nel suo impegno di annunciare il Vangelo agli uomini d’oggi con un linguaggio moderno.
Quando venne approvata l’Inter Mirifica, il documento conciliare sui mezzi di comunicazione sociale, che sanciva il diritto e la responsabilità della Chiesa a possederli e servirsene per l’evangelizzazione, don Alberione aveva già alle spalle cinquant’anni d’esperienza con i mass media, anche a livello mondiale. All’approvazione manifestò la sua esultanza con queste parole: «Il nostro apostolato è approvato, lodato e stabilito come dovere per tutta la Chiesa. L’attività paolina è dichiarata apostolato, accanto alla predicazione orale, dichiarata d’alta stima dinanzi alla Chiesa e al mondo».
Quell’umile prete «silenzioso, instancabile, sempre vigile nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all’opera, sempre intento a scrutare i “segni dei tempi”» (sono parole di Paolo VI), ha dato un concreto contributo al Concilio, cui partecipò assiduamente, pur non avendo mai preso la parola nell’Aula conciliare. Don Alberione non era un teorizzatore, ma un uomo d’azione che sapeva ideare, organizzare e dare grande impulso alle iniziative, con coraggio e “santa spregiudicatezza”.
Tra le proposte che don Alberione inviò al Concilio, una riguardava in particolare la Bibbia, da far leggere a tutti, accompagnata da note e spiegazioni di carattere catechetico, dogmatico e morale. Una richiesta in linea con la missione che egli aveva affidato ai suoi figli di diffondere la Parola di Dio e far arrivare i testi sacri in tutte le famiglie, a prezzi molto accessibili, popolarissimi. In un tempo in cui leggere la Bibbia era “tabù” per i fedeli o materia solo per esperti, studiosi e specialisti.
«Vi era una speciale persuasione», scriveva il beato Giacomo Alberione, «che non si potesse dare al popolo il Vangelo, tanto meno la Bibbia. Tre cose, invece, occorrevano: 1) che il Vangelo entrasse in ogni famiglia unitamente al Catechismo; 2) che il libro del Vangelo formasse il modello e l’ispiratore di ogni edizione cattolica; 3) che al Vangelo si desse un culto. Occorre ritenerlo con venerazione. La predicazione deve assai più riportare il Vangelo e modellarsi sopra di esso soprattutto viverlo nella mente, nel cuore, nelle opere».
Nella celebrazione ad Alba, il 20 agosto scorso, dell’anno centenario della nascita della San Paolo, il vescovo monsignor Giacomo Lanzetti ha espresso riconoscenza, a nome della Chiesa tutta, «per l’opera della Famiglia paolina, per la fedeltà alla vocazione e ai carismi del Fondatore, declinata con coraggio e inventiva in cento anni spesso non facili». E pensando alla Chiesa d’oggi, ha aggiunto: «Quanto sarebbe piaciuto al vostro Fondatore il documento programmatico Evangelii gaudium di papa Francesco! E come, reciprocamente, l’ansia evangelizzatrice e missionaria del beato Albe-rione sarebbe piaciuta a papa Francesco. Sono certo che anche l’attuale Papa, nella sua estremamente libera fantasia dell’incontro, troverebbe il modo di manifestargli apprezzamento per la consonanza degli intenti». Per noi, figli del beato Alberione, il tracciato apostolico per il futuro è ben delineato.