Lc 14,25-33 - Mercoledì della XXXI Settimana del Tempo Ordinario - Anno Pari - (6 novembre 2024) -
“Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. L’annotazione con cui inizia la pagina del Vangelo di oggi ci fa comprendere subito che Gesù sa bene che molte persone lo seguono per il motivo sbagliato. Forse sono prese dall’entusiasmo dei miracoli, dalla sua fama crescente, dalla sua capacità di parlare e di spiegare le cose, ma seguirlo è un’altra questione.
Gesù sottopone così la gente che lo circonda a una verifica stringente: odiare il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle, e persino la propria vita.
Ma che cosa significa odiare? Non significa certo fare del male, ma significa ricordarsi che nessuna di queste persone ha il diritto di prendere il posto di Dio. Si può rimanere imprigionati in un rapporto paterno, materno, genitoriale, fraterno, e persino si può rimanere imprigionati con la propria stessa vita. Solo se Dio è Dio, allora ognuna di queste persone può splendere nella sua bellezza senza diventare un idolo. Ma è sempre difficile per noi rinunciare a divinizzare le cose che ci rendono felici. Banalmente è come se ci trovassimo davanti a un segnale stradale che ci indica la direzione giusta, e ci fermassimo a quel segnale senza prendere sul serio la direzione che indica.
Lo scopo di quel segnale è non farci perdere, è salvarci la vita perché ci indica dove dobbiamo andare, ma non è la meta. Ognuna delle cose che abbiamo elencato prima sono un sacramento, cioè sono un segno che può salvarci la vita perché ci indicano la meta, ma non sono loro stessi la meta. E poi c’è l’ultima annotazione: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. Passiamo troppo tempo della nostra vita a ribellarci rispetto a quello che c’è o a quello che siamo. La vera svolta è accettare quello che c’è è accettare quello che siamo, perché solo così si va davvero da qualche parte.
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