«Chiunque ripudia sua moglie, se non in caso di pornéia, e ne sposa un’altra, commette adulterio» (Matteo 19,9). Se leggiamo il paragrafo integrale (19,1-9) che narra una discussione di Gesù con i farisei, si nota subito l’affermazione del principio dell’indissolubilità matrimoniale, basata sull’asserzione biblica dei «due che sono una carne sola» (Genesi 2,24).
Gesù, però, è anche consapevole che il libro del Deuteronomio avallava il divorzio in caso di «qualcosa di vergognoso» (24,1-4).
L’indeterminatezza di questo comma aveva generato due scuole di interpretazione. La prima di rabbí Hillel era permissiva: qualsiasi ragione, anche un cibo scotto o l’aver trovato una donna più bella, ammetteva il divorzio. Rabbí Shammai, invece, vedeva in quel «qualcosa di vergognoso» solo cause gravi come l’incesto, lo stupro, l’adulterio. In una società maschilista era solo il marito l’attore giuridico, anche se poi nel giudaismo si cominciò a esigere per il divorzio pure il consenso della moglie.
Gesù ritiene questa norma mosaica solo una concessione causata dalla «durezza di cuore», cioè dalla coscienza umana malata che si doveva curare pazientemente, ma non era una regola strutturale del matrimonio. Anche alcune correnti giudaiche minoritarie si muovevano in questa linea. Ma, allora, cosa significa l’eccezione che abbiamo lasciato con la parola greca, pornéia?
Tutto dipende dal significato assegnato a questo vocabolo. Per alcuni qui indica l’adulterio, anche se proprio nella stessa frase per designarlo si usa un verbo specifico, moicheyô, e quindi l’interpretazione – adottata nella prassi delle Chiese ortodosse e protestanti – non sembra pertinente.
Altri ricorrono all’equivalente ebraico zenût che, in alcuni testi giudaici, rimanda alle unioni illegittime tra consanguinei, condannate dal capitolo 18 del Levitico. Queste unioni erano legali nel mondo pagano: la Chiesa di Matteo riteneva perciò che i pagani convertiti al cristianesimo potessero rompere questi matrimoni.
Di per sé, però, non si dovrebbe parlare di divorzio in senso stretto trattandosi di «unioni illegittime» (questa è l’interpretazione e la traduzione della Bibbia della Cei).
Altri, poi, pensano che Matteo proponga solo la separazione nei casi gravi di pornéia del coniuge, cioè della sua “immoralità sessuale” (e quindi anche l’adulterio).
In sintesi: Gesù afferma nettamente il principio dell’indissolubilità matrimoniale; la Chiesa di Matteo applica questo principio incarnandolo nelle coordinate concrete della vita pastorale.
Non sappiamo, però, con certezza le caratteristiche di questa attuazione espressa nell’“eccezione” di Matteo: matrimoni illegittimi per l’ebraismo ma legali per i pagani da sciogliere, oppure matrimoni resi insopportabili per grave immoralità del coniuge, o semplice separazione? Quale dev’essere l’equilibrio tra il rigore dei principi e la misericordia pastorale? È ciò a cui si deve impegnare a rispondere la Chiesa nel contesto della sua esperienza nella storia.