Non era facile la scommessa che Gianfelice Facchetti ha fatto con sé stesso, portare a teatro il pallone – in un monologo con inserti musicali dal vivo della Banda del fuorigioco – facendo teatro-teatro, non calcio con altri mezzi, partendo anzi da un saggio (La tribù del calcio di Desmond Morris), sinonimo di per sé di cultura alta, convocando insieme nella platea semiperiferica del Campo teatrale di Milano (fino a domenica 19 gennnaio) appassionati di calcio e appassionati di teatro, evocando storie, suggestioni, poesia quasi soltanto a parole e musica.
La scommessa è riuscita, ieri sera ci sono stati sala piena e applauso convinto.
Ma dopo, quando Gianfelice, figlio di Giacinto, dopo essere stato un’ora e mezza in scena, s’è seduto sugli scalini e offerto alle domande del pubblico è successa una cosa strana: s’è trovato dentro una specie di processo del lunedì al calcio e al teatro insieme e alla loro sintesi, in cui s’è capito che gli amanti del teatro e gli amanti del calcio (o meglio alcuni di loro) fanno ancora una certa fatica ad abbattere la barriera che ancora divide lo sport e la cultura, come se nel 2020 non fossero ancora esistiti Dino Buzzati, Gianni Brera, Alfonso Gatto e da ultimo, ma non ultimo anzi, Giovanni Arpino, nelle cui braccia Gianfelice, non per metafora, è stato cullato appena nato e persino battezzato. Come se non fosse stato ancora dimostrato, anche a quelli che vedono in una partita di pallone soltanto 22 incomprensibili sfaccendati in mutande che rincorrono una palla, che a fare la cultura e il teatro non è il soggetto nudo e crudo – e che è sempre da sempre la vita in tutte le sue forme, calcio compreso – ma sono le parole e la scena con cui questo contenuto si veste e si traveste trasmettendo emozioni.