Tour de France: Gino Bartali ha attaccato la salita ed è rimasto da solo.
«Adriana, vado a fare un lungo». Il lungo era il tipo di allenamento: molti chilometri in condizioni estreme. Adriana, la moglie, ci credeva. Il marito, invece, se ne andava sì in bicicletta a fare il “lungo”, ma non per restare in forma in attesa delle gare. Perché gare non ce n’erano; c’era, invece, la guerra, la seconda guerra mondiale. Lui riempiva segretamente la bicicletta di documenti e partiva. Da Firenze arrivava fino in Umbria a consegnare quelle carte che permisero di salvare circa 800 ebrei dai nazifascisti.
Quel ciclista si chiamava Gino Bartali. Era nato il 18 giugno di cent’anni fa ed è stato un campionissimo, ammirato e anche mal sopportato da chi tifava per il suo grande rivale, Fausto Coppi, che per altro fu scoperto proprio da Bartali. La vita di Gino è stata degna di un romanzo: Coppi, ventenne, vinse il suo primo Giro d’Italia nella squadra di Bartali. Gino lo aiutò – anche se a malincuore – perché Fausto aveva sorpreso tutti in una tappa in Emilia. Allora il capitano decise di favorire l’esordiente. Quando Coppi tagliò il traguardo dell’ultima tappa, vincendo quel Giro, era il 10 giugno 1940. Quel giorno Benito Mussolini fece entrare in guerra l’Italia. Lo sport finiva lì, almeno per cinque anni.
Gino continuò a pedalare per salvare le vite degli altri. In silenzio, mentendo anche alla moglie perché sapeva che sarebbe stato pericoloso coinvolgere i suoi cari in quella vicenda. Nascose tutto anche dopo che l’orrore nazifascista fu finito. Tornarono le corse e il ciclismo visse anni magnifici proprio per il duello tra loro due, Coppi e Bartali. Gino rivinse il Tour a dieci anni di distanza dal primo. Era il 1948 e anche quella volta la sua vita sportiva s’incrociò con la vita sociale e politica del Paese. Mentre lui trionfava in Francia, a Roma il segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, rimase ferito in un attentato e l’Italia si scoprì, ancora una volta, a un passo dalla guerra civile.
S’è sempre detto che le vittorie di Bartali aiutarono a stemperare il clima di tensione prossima allo scoppio di una polveriera. Vero o meno (avevo uno zio ciclista, che vinse anche due tappe al Giro d’Italia e che mi confermò che nei bar si ascoltava la radio per sapere cosa stesse succedendo in Francia e i più agguerriti comunisti fermavano i loro tentativi di rivolta in quelle ore per tifare), resta che Ginettaccio, come lo chiamavano per quel suo modo polemico di proporsi al mondo, era sempre al centro della nazione. Eppure lui non parlò mai di quelle vite che aveva salvato, fino a pochi anni prima di morire, a bocce ormai ferme da decenni. Confidò al figlio che quei “lunghi” in realtà erano corse un po’ folli per salvare quegli ebrei nascosti in un convento umbro. E quando il figlio gli chiese perché non avesse mai voluto parlare di quegli episodi, Gino rispose a modo suo: «Certe cose si fanno e non si dicono».
Sono passati cent’anni dalla nascita di Bartali, campione nello sport e campione soprattutto come persona. Qualcuno in Italia lo ricorda, ma è sempre troppo poco. In questi giorni il Tour de France passa proprio sulle sue montagne, quelle che lo resero eroe sportivo amato da tutti, ovunque, anche là, in Francia. Così, ancora oggi, a cent’anni di distanza dalla nascita, grazie anche a un italiano che può vincere il Tour, Vincenzo Nibali, ci sentiamo come il protagonista del capolavoro di Paolo Conte, scalpitiamo perché “da quella curva spunterà quel naso triste da italiano allegro, tra i francesi che si incazzano e i giornali che svolazzano”. E se Nibali vincerà il Tour de France, un po’ lo dovrà anche a quel “naso triste come una salita, con gli occhi allegri da italiano in gita”. Divenuto, anche, post mortem, “giusto tra le nazioni”. E noi italiani ne siamo orgogliosi.