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martedì 15 ottobre 2024
 

Hamas e Al Fatah, la farsa è finita

Ragazzi palestinesi con l'immagine di Abu Mazen, leader di Al Fatah (Reuters).
Ragazzi palestinesi con l'immagine di Abu Mazen, leader di Al Fatah (Reuters).

Meno di un anno se si considera l'accordo siglato nel settembre 2014. Un po' più di un anno se si considera, invece, l'altro patto, quello dell'aprile 2014. Tanto è durato, comunque, il Governo di unità nazionale che, mettendo insieme le fazioni di Hamas (dominante nella Striscia di Gaza) e Al Fatah (dominante invece in Cisgiordania), avrebbe dovuto dare impulso all'unità palestinese e imprimere un "peso" diverso alle trattative di pace con Israele. Il leader di Al Fatah, Abu Mazen, ha sciolto tutto con quattro parole durante una riunione di partito.

Che sia finita male non è una sorpresa: era un'idea balorda fin dal principio, uno pseudo-accordo tra parti che si detestano e hanno poco o nulla in comune, a parte l'identità palestinese. Hamas è irrecuperabile, conosce una politica sola: pugno di ferro nella Striscia, corruzione e ogni paio d'anni un conflitto armato per far affluire nella Striscia i denari della ricostruzione, e ricominciare così il ciclo che lo tiene al potere.

Al Fatah è una congrega di vecchi militanti attaccati al potere, insofferenti a qualunque ipotesi di ricambio, allergici alle elezioni democratiche (le ultime si sono svolte nel 2006 e hanno portato alla guerra tra Hamas e Fatah del 2007) e in buona parte corrotti. E con la finta alleanza con Hamas hanno pure fatto un clamoroso errore strategico perché, nonostante siano ormai incapaci di offendere (durante l'ultima guerra tra Israele e la Striscia, gli uomini di Abu Mazen collaboravano di fatto con le forze di sicurezza israeliane), stringere patti con un'organizzazione terroristica che considera la distruzione di Israele un obiettivo ancora da perseguire è stato come offrire al Governo Netanyahu una carta politica ottima e insperata.

Né Hamas né Al Fatah hanno mai avuto davvero a cuore l'unità del popolo palestinese, ma solo la conservazione di rendite di posizione giocate, queste sì, sulla pelle del popolo palestinese. Quelli di Hamas cercavano di sfuggire all'isolamento internazionale in cui erano precipitati dopo che in Egitto il presidente Morsi e i suoi Fratelli Musulmani erano stati cacciati dal contro-colpo di Stato dei militari. Al Fatah cercava di recuperare consenso tra i palestinesi, molti dei quali delusi dalla politica di Abu Mazen, colpevole ai loro occhi di non cavare alcun ragno dal buco Israele.

Tra i due ha ben manovrato Israele, in particolare il Governo Netanyahu. Che non a caso oggi "dialoga" con Hamas assai più di quanto faccia con Al Fatah, a dispetto dei razzi e di tutto il resto. Funzionano, in questo caso, le recenti intese raggiunte dallo Stato ebraico con i Paesi musulmani sunniti più o meno integralisti che sostengono Hamas (Qatar e Turchia) e soprattutto con l'Egitto del generale Al Sisi. Non a caso il valico di Rafah tra Egitto e la Striscia è stato riaperto e le merci, vitali per l'economia e il sostentamento della Striscia, hanno ripreso a fluire.

La politica di Netanyahu, al netto di tutte le retoriche, si conferma così cinica ma lucida. A Israele della Striscia non importa nulla, mentre gli importano molto i terreni della Cisgiordania (e infatti nuove costruzioni sono state annunciate negli insediamenti). Per Israele, inoltre, Hamas è il male, ma un male minore rispetto alle possibili infiltrazioni dell'Isis nella Striscia. Per questo gli ultimi razzi partiti da Gaza e dintorni sono stati puniti con le solite incursioni aeree, ma in misura più moderata di altre volte, proprio perché i lanci erano stati organizzati dai salafiti che a Gaza fanno la fronda a Hamas e che di Hamas sono considerati ancor più pericolosi. 


 
 
 

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17 giugno 2015

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