Caro don Stefano, ho letto la sua risposta a Umberto su Famiglia Cristiana n. 48 del 27 novembre 2022 in merito alle donazioni agli enti benefici. Ecco la mia esperienza. Ottenuta la patente, a metà degli anni ’70, ho fatto i primi incontri diretti con i questuanti dei semafori. Le 50-100 lire non mancavano, ma poi, leggendo e ascoltando, mi resi conto che stavo finanziando le organizzazioni che iniziavano a gestire anche questo mondo lasciando al questuante una miseria. Non ho più dato loro una lira. Poi negli anni ’80, sposato con 2 figli, il parroco – un prete operaio, presidente di una cooperativa sociale – durante un’omelia ci ha rivelato gli stipendi medi dei quadri di grosse organizzazioni “no profit”: 3-5 volte superiori al mio.
Le nostre donazioni alle grosse organizzazioni sono diventate così molto rare. Con mia moglie abbiamo, quindi, rivolto la nostra attenzione al territorio. Questo ci permette di conoscere il bisogno e a volte di incontrarlo. Mia moglie e io abbiamo sempre cercato di essere attenti a questi bisogni dedicando risorse, economiche e non, per quello che ritenevamo di poter dare in quel momento. Non sono mai state grandi cose, ma piccole gocce sì. Ma perché tanta frammentarietà? Quanti presidenti, sedi, bollette ma soprattutto quante risorse umane impegnate a “tenere in piedi” le strutture, e quindi distratte dall’oggetto dell’organizzazione e del volontario!
Gianni
- Don Stefano:
Caro Gianni, ritorno su questo tema innanzitutto per dire che le Ong, come tutte le organizzazioni no profit, destinano (e non potrebbe essere diversamente) una parte delle risorse all’organizzazione interna. Dubito in ogni caso che vi siano oggi in giro stipendi faraonici (ci si può comunque sempre informare leggendo i loro bilanci online). In ogni caso la soluzione che avete scelto voi – cioè quella di privilegiare il territorio – è sicuramente un buon criterio, perché permette di verificare di persona le attività che vi vengono svolte, magari anche integrando l’aiuto economico con la propria opera personale e creando, quindi, reti e relazioni che possono aiutare a rendere una comunità più viva.
Quanto alla dispersività e al numero delle associazioni, non credo che si possa generalizzare. Ognuna ha un proprio scopo e una propria missione, mutuata spesso dalla storia dei fondatori. Credo che la storia e le circostanze possano consigliare di volta in volta collaborazioni più strette, fusioni o, se la missione si è esaurita per vari motivi, anche – perché no? – la definitiva liquidazione.