Questi sono “i giorni di Venezia”, nel senso del Festival cinematografico, uno dei fiori all’occhiello della cultura del nostro Paese. C’è curiosità e interesse per le produzioni anche più lontane ma, inevitabile, l’attenzione si concentra maggiormente sulla produzione italiana. La critica si sofferma, analizza, approfondisce. Poi sospira. Gira voce, al Lido, di registi italiani che non farebbero altro che affermare: «Ho girato un capolavoro». Uno, due, cinque, dieci capolavori, a sentire gli uno, due, cinque, dieci autori. Speriamo sia vero, certo, ma sappiamo anche che il nostro cinema non sta molto bene e l’idea che ogni film presentato a Venezia possa risultare un’opera destinata a restare nella memoria appare molto ottimistica.
Forse, anche i registi hanno dimenticato di che alto livello sia stato il nostro cinema in altre epoche. Tanto per fare un esempio, giusto sessant’anni fa, fra il 3 e il 6 settembre 1954, a Venezia vennero presentati Senso, di Luchino Visconti, e La strada, di Federico Fellini. E proprio oggi, 4 settembre, festeggiano il cinquantesimo compleanno due film che il festival veneziano presentò lo stesso giorno, nel 1964: Il deserto rosso, di Michelangelo Antonioni, e Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini. Ecco, nessuno di quei grandi registi rincorreva i critici per tirare loro la giacca e proclamare di aver girato un capolavoro. E neanche affermare, come è capitato in questi giorni, che il loro film «è inattaccabile». Sapevano, quegli autori, di non aver bisogno di stare sulla difensiva, ma solo di dover accompagnare il film alla porta della distribuzione ufficiale attraverso la vetrina festivaliera. Anche se non erano solo rose e fiori.
Nel 1954 si arrivò addirittura alla rissa in platea tra il clan viscontiano e quello felliniano, una scena poco edificante per tutti, mentre dieci anni dopo il Vangelo pasoliniano fu recepito più come uno “scandalo” che come la grande opera che era. Poi, il tempo, si sa, fa giustizia. Oggi, invece, è difficile per il nostro cinema e i nostri autori trovare il bandolo di una matassa produttiva e distributiva sempre più difficile da dipanare. Così, mentre si va in giro per il Lido a far credere che il proprio film sia un’opera definitiva, immensa, destinata a restare nella storia, si dimentica lo sterminato elenco di capolavori veri, quelli sì, che la macchina cinema italiana riusciva a produrre nel giro di pochi mesi.
Qualche titolo? Nel 1954, oltre a Senso e a La strada, uscivano, tanto per citare alla rinfusa, L’oro di Napoli, di Vittorio De Sica, ma anche Miseria e nobiltà, di Mario Mattoli. E pure Un americano a Roma, di Steno, Dov’è la libertà?, di Roberto Rossellini, L’arte di arrangiarsi, di Luigi Zampa, Totò e Carolina, di Mario Monicelli, La romana, ancora di Zampa, Il seduttore, di Franco Rossi, Sesto continente, di Folco Quilici. Sono solo alcuni titoli, si capisce, ma quanto valgono?
E dieci anni dopo, nel 1964, l’anno del Vangelo e del Deserto rosso, si andava al cinematografo per vedere anche Matrimonio all’italiana di De Sica, Sedotta e abbandonata di Pietro Germi, Gli indifferenti di Francesco Maselli, Italiani, brava gente, di Giuseppe De Santis, La vita agra, di Carlo Lizzani, La donna scimmia, di Marco Ferreri, Prima della rivoluzione, di Bernardo Bertolucci, Il disco volante, di Tinto Brass, Comizi d’amore, di Pasolini, La congiuntura, di Ettore Scola. E dopo solo una settimana dal Festival di Venezia, in quel 1964 sarebbe uscito un film destinato a rivoluzionare la storia del cinema, Per un pugno di dollari, di Sergio Leone. Altri tempi? Sì, ma anche altre teste.