In un Paese in cui la politica accusa da anni la magistratura di volerla influenzare stiamo assistendo a un curioso paradosso.
Il Governo aspetta, neanche fosse l’oracolo di Delfi, una carta processuale per decidere se il suo ministro della Giustizia sia ancora credibile in quel ruolo, dopo essere stata pizzicata a dire al telefono a una famiglia di persone appena arrestate: «Non è giusto». Un pezzo di Parlamento invoca il ricorso a una Corte purchessia (Europea, Costituzionale…), sperando di sentirsi dire che una legge che lo stesso pezzo di Parlamento ha contribuito a scrivere, votare e approvare non s’aveva da fare e salvare così il proprio leader – condannato con sentenza definitiva – dalla decadenza che quella legge prevede in caso di condanna passata in giudicato.
È vero che un Paese democratico per dirimere le sue controversie ha bisogno di un Codice penale e di un Codice civile, e di giudici che li applichino, ma a monte e a valle dei codici e delle leggi dovrebbero continuare a esistere criteri intermedi per giudicare (politicamente, moralmente, in base all’opportunità) i comportamenti.
Non occorre neanche scomodare Kant («Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me»), basta un buon padre di famiglia che di certo non aspetta i Nas per decidere se sia il caso di spiegare al figlio bambino che non ci si serve della marmellata con le dita.