Invio queste righe per rendere merito alla figura di una grande e coraggiosa donna, Felicia, la mamma di quel giovane di Cinisi barbaramente assassinato dalla mafia. Felicia aveva preteso con tutta la sua forza di tenere fuori il “male” dalle mura di casa, pur essendo cosciente che pure il suo uomo, il padre dei suoi figli, ne faceva parte. Pareva fosse consapevole che un giorno il dolore di moglie e di madre le avrebbero fatto compiere un altro passo, definitivo, contro il “sistema”. Sì, perché lei, donna, madre, siciliana, piuttosto che rinchiudersi in casa a soffrire il dolore di aver perso tragicamente prima il marito e poi il figlio, volle con tutta sé stessa aprire la sua tragedia, quella della sua casa, al mondo. Felicia come gesto di estrema resistenza volle aprire le finestre e le porte di casa a quanti vollero e ancora oggi vogliono condividere dolore e memoria per trasmetterli negli angoli più nascosti del nostro Paese. Volle spargere a tutte le genti che ebbe modo di conoscere il ricordo e il messaggio di suo figlio Peppino: «Perché mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. Loro si immaginano: “Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa”. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise». E Felicis nells sua semplicità di madre teneva in particolare ai giovani, a quei ragazzi che le chiedevano cosa potessero fare per contrastare le mafie, il male assoluto: «Tenete la testa alta e la schiena dritta» e, lei che aveva frequentato soltanto le elementari, aggiungeva: «Studiate, perché studiando si apre la testa e si capisce quello che è giusto e quello che non è giusto». Un amore profondo, quello per i giovani, per l’aria fresca che annienta l’odore di chiuso che in quel tempo regnava nella realtà di Cinisi. Il passaggio, messo in atto per infangare definitivamente, anche nella memoria, Peppino Impastato, verrà a galla grazie ai suoi compagni, a quanti malgrado tutto gli sono stati vicino, ma anche grazie alla volontà di una famiglia, di Felicia, del fratello Giovanni di ricercare la verità. Felicia diventa così protagonista della battaglia per veder riconosciuto il valore dell’impegno del figlio. Sarà lei la prima donna in Italia a costituirsi parte civile, rompendo gli ultimi fili che potevano accostarla ai parenti del marito. Contro una tradizione che doveva vederla rinchiusa nel dolore, si schiererà con i compagni di Peppino. Con l’altro figlio Giovanni aprirà quelle persiane di casa che avrebbero dovuto stare chiuse per il lutto e la vergogna. Ma Felicia si spingerà oltre: aprirà le porte di casa a tutti i giovani che vorranno conoscere la storia di quel giovane innamorato della giustizia. Al processo accuserà, indicaandolo con il dito puntato, Badalamenti di essere il mandante dell’omicidio di suo figlio. Intanto la politica, pur con lentezza, riconoscerà il valore di Peppino tanto che nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia verrà costituito un Comitato sul caso Impastato. Il risultato dei lavori porterà, il 6 dicembre del 2000, ad approvare una relazione sulle responsabilità dei rappresentanti delle istituzioni coinvolti nel depistaggio delle indagini. L’anno successivo la Corte d’Assise di Palermo condannerà i mafiosi Vito Palazzolo a 30 anni di reclusione e Gaetano Badalamenti all’ergastolo. Felicia morirà, il 7 dicembre del 2004, in quella casa che aveva voluto con finestre e porte aperte e che continuerà a essere un punto di riferimento per quanti credono nella democrazia e nel bene comune.
LUCA SOLDI (Prato, lettera del 29/5/2018)