All’interno della narrazione della passione di Cristo secondo Luca ritagliamo ora una scena squisitamente femminile. Gesù avanza, già sfinito, lungo la via che lo conduce al Calvario. Nella folla incuriosita, come sempre, delle sventure altrui (si pensi ai turisti dell’orrore che accorrono nei luoghi ove si sono consumati delitti o tragedie), solo Luca segnala la presenza di una sorta di confraternita femminile votata all’assistenza dei condannati a morte ai quali – stando al Talmud, la grande raccolta antica di tradizioni giudaiche – offrivano bevande anestetiche. È, quindi, compiuto da donne l’unico gesto di compassione che Gesù riceve durante il suo martirio. A loro egli indirizza, però, un messaggio forte, persino severo. In altri termini dichiara loro: più che compatire me, dovreste preoccuparvi di voi stesse e del vostro popolo.
Inizia, infatti, con questo primo monito: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli!» (23,28). E subito dopo calca la sua affermazione con una serie di frasi cariche di simboli e di colori apocalittici. La prima contiene una sorta di profezia: «Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato! » (23,29). Lo sguardo di Gesù sembra allungarsi fino alla tragedia che colpirà Gerusalemme nel 70 d.C., quando sarà demolita dai Romani. In realtà, egli forse risale a un altro evento drammatico, quello del 586 a.C., quando furono i Babilonesi a distruggere la città santa.
In quel giorno – cantavano le Lamentazioni bibliche – «la lingua del lattante si era attaccata al palato per la sete; i bambini chiedevano il pane e non c’era chi lo spezzasse loro» (4,4). Perciò, fortunate le donne sterili che, non avendo figli, non vedevano morire tra le braccia i loro bambini. È ciò che Gesù aveva già detto nel suo discorso cosiddetto “escatologico”, ossia sulla meta ultima di Gerusalemme e della storia umana, una fine destinata a essere accompagnata da un tempo di grande sventura prima di aprirsi alla luce della redenzione e della salvezza: «In quei giorni guai alle donne incinte e a quelle che allattano perché vi sarà grande calamità nel paese e ora contro questo popolo» (Luca 21,23).
La seconda frase, sempre cupa, che Gesù indirizza a quelle donne è, invece, una citazione del profeta Osea (10,8): «Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e alle colline: Copriteci!» (23,30). È l’esclamazione potente di chi, trovandosi in una sventura insopportabile, implora la morte attraverso una catastrofe naturale. Siamo sempre nella linea della cosiddetta “apocalittica”, che vuole scuotere Israele perché tema il giudizio finale di Dio.
Giungiamo, così, alla terza e ultima dichiarazione di Cristo, che mette in relazione tra loro il legno verde e quello stagionato e arido: «Se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?» (23,31). L’immagine, variamente precisata dagli studiosi, è comunque abbastanza nitida e netta: se ora si brucia il legno verde, cioè intatto e vivo, simbolo di Gesù il giusto, cosa accadrà quando saranno sottoposti al giudizio i veri colpevoli, ossia il legno secco? Anche nel libro del profeta Ezechiele giusti e peccatori sono rappresentati sotto questo stesso duplice segno: «Io accenderò in te – dice il Signore – un fuoco che divorerà ogni albero verde e secco» (21,3). Gesù, perciò, invita a considerare la vera tragedia, che è quella del giudizio divino su chi lo sta ora uccidendo, e quindi la condanna di Dio nei confronti del male, della violenza e dell’ingiustizia (il legno secco, facilmente combustibile).