Se uno volesse conoscere la parola più usata nell’Antico Testamento, scoprirebbe che ovviamente è il nome divino Jahweh, presente 6.828 volte. Ma, a sorpresa, subito dopo troverebbe il vocabolo ebraico ben, “figlio”, che risuona per ben 4.929 volte. È, quindi, la famiglia la realtà più presente, come peraltro appare già nella prima pagina della Bibbia: in essa l’«immagine» di Dio che è stampata nell’umanità è la coppia maschio-femmina (Genesi 1,27). E non certo perché Dio è sessuato, come insegnavano le civiltà dell’antico Vicino Oriente, ma perché la capacità di amare e di generare è la rappresentazione più efficace del Creatore.
San Giovanni Paolo II, a Puebla, in Messico, il 28 gennaio 1979, aveva dichiarato: «Il nostro Dio nel suo mistero più intimo non è una solitudine, ma una famiglia, dal momento che ci sono in lui la paternità, la filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo». In questa prospettiva possiamo veramente considerare il matrimonio come una vocazione. È san Paolo stesso che, in un testo piuttosto settoriale perché rivolto a una comunità attraversata da problemi di etica sessuale, come quella di Corinto, non esita a dire, riguardo al matrimonio, dopo aver ricordato il suo stato celibatario, che «ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo e chi in un altro» (1Corinzi 7,7) e in greco “dono” è chárisma.
Proprio per questa dimensione divina insita al matrimonio, esso può diventare «mistero grande in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (Efesini 5,32). Si recupera, così, la grande tradizione profetica che ripetutamente aveva usato il simbolismo nuziale per parlare del rapporto di alleanza tra Dio e il suo popolo, anche attraverso percorsi sconcertanti come quello che abbiamo a suo tempo descritto narrando la vocazione del profeta Osea. Nella stessa linea, una mirabile esaltazione della relazione di coppia come quella che risplende nel poemetto del Cantico dei Cantici può essere assunta a simbolo dell’amore tra Dio e l’umanità, senza però perdere la concretezza di quella coppia nel loro amore fatto di baci, di ebbrezza, di unione intima.
Gesù, poi, riprendendo l’appello della Genesi a essere «una carne sola», invita gli sposi cristiani a non considerare il loro matrimonio come un mero contratto giuridico o un accordo tra due contraenti, ma a viverlo radicalmente come donazione totale (Matteo 19,1-9), una meta da perseguire sempre, pur con la consapevolezza della fragilità umana (pensiamo al suo comportamento con l’adultera). La sigla ideale della vocazione matrimoniale dovrebbe essere quella reiterata dalla donna del Cantico dei Cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua... Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3). Una reciprocità nell’abbraccio, un legame per cui le due differenti identità si rivelano vicendevolmente.
Riprendiamo, allora, in finale, l’invito di san Paolo che, ricorrendo al vocabolo klésis, “chiamata, vocazione”, potrebbe ripetere agli sposi quello che affermava per i vari stati di vita e di professione ai Corinzi: «Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato» (I,7,20). E la testimonianza di fedeltà e di amore di una famiglia è un segno mirabile, come osservava lo scrittore francese François Mauriac: «L’amore coniugale, che persiste attraverso mille vicissitudini, mi sembra il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune».