Antefatto: Il ramo dell’inchiesta sull’Expo dei pm Gittardi e D’Alessio, coordinati prima da Ilda Boccassini e poi da Edmondo Bruti Liberati, che coinvolgeva tra gli altri Greganti, Frigerio e Grillo, si è conclusa con il patteggiamento, vale a dire con la richiesta da parte di 6 indagati su 7 di una pena concordata, a fronte di uno sconto fino a un terzo: è uno dei riti alternativi, previsti dalla legge, che consentono di concludere il procedimento senza arrivare ad aprire il dibattimento, cioè la parte lunga e costosa del processo che porta Pm e avvocati a contendere a voce davanti al giudice chiamando testimoni. Allo stesso modo con 19 patteggiamenti incluso quello di Galan, più o meno un mese fa, si era conclusa l’indagine condotta dal pm Carlo Nordio sul Mose di Venezia.
Tra la gente, ma anche sui titoli dei giornali, il patteggiamento viene spesso percepito come un “fallimento” della giustizia, quasi che si trattasse di una soluzione un po’ indecente, di una giustizia che si arrende. Ma è davvero così?
In realtà no, è vero il contrario. Primo perché quando un imputato accetta di patteggiare, pur non ammettendo formalmente la colpevolezza – anche magari negando tutto come avvenuto per alcuni di quelli di cui sopra -, di fatto ha valutato la convenienza di accettare una pena decurtata, rispetto al rischio di andare ad affrontare il processo con il dibattimento e di prendersi una condanna intera. Ovvio che in un sistema in cui si può resistere in giudizio con strategie dilatorie sperando nella prescrizione, la richiesta di patteggiamento è una soluzione che indica implicitamente che la giustizia ha prodotto un’indagine rapida ed efficace, a fronte della quale le probabilità di scampare a una condanna intera sono scarse. In parole povere: meglio accettare di pagare (in termini di pena carceraria o pecuniaria che sia) un uovo oggi che una gallina domani.
Secondo perché, nelle intenzioni dei giuristi che hanno approntato il cosiddetto nuovo codice di Procedura Penale, che compie 25 anni quest’anno, i riti alternativi (abbreviato e patteggiamento in particolare) avrebbero dovuto diventare la norma, lasciando al dibattimento l’eccezione dei casi complicati o dei reati più gravi, come accade per esempio negli Stati Uniti. Solo così si sarebbe potuto tradurre quel codice in una giustizia ragionevolmente rapida per tutti ed evitare l’ingolfamento del sistema che si è invece verificato. Se non è avvenuto, è anche perché la prescrizione è rimasta com'era fino al 2005 e poi è stata modificata in peggio dalla legge ex Cirielli e perché il sistema non scoraggia adeguatamente i ricorsi (in Appello e in Cassazione) manifestamente infondati, miranti solo a far correre il tempo.
Poi si può discutere se i reati che hanno a che fare con condotte opache dell’amministrazione dalla corruzione in su e in giù siano adeguatamente sanzionati dalle leggi vigenti, ma in quello la discrezionalità del giudice è limitata: tocca chiederne conto al legislatore che decide, nel minimo e nel massimo, quanto si paga una condotta disonesta e di come si realizza un contrasto serio al malaffare nella Pubblica amministrazione. E qui forse bisognerebbe aprire una parentesi, per ragionare di come i partiti selezionano i propri aspiranti e del concetto che chi si candida ha del proprio mandato, troppe volte percepito più che come un servizio, come una chiamata al Paese di Bengodi. Bisognerebbe domandarsi per quanti scrivere norme di contrasto efficace ai meccanismi corruttivi sarebbe darsi la zappa sui piedi. Ma sarebbe una faccenda lunga.
Ps. A giudicare da certe performance regionali in cui sarebbe comparsa in nota spese (pubbliche, cioè a carico nostro) anche la biancheria intima, qualche cattivo pensiero sorge.