Abbiamo lasciato intenzionalmente la
parola greca del testo originario nel celebre
passo biblico che proponiamo ai
nostri lettori.
Logos significa “parola, verbo,
discorso”, indica la comunicazione tipica
dell’essere umano. Nella Bibbia, però, come
ben sappiamo, la “parola” è qualcosa di più
di quello che intendiamo noi occidentali: essa
è anche l’azione con cui esprimiamo noi
stessi, perciò il termine ebraico dabar designa
contemporaneamente la parola e l’atto.
Non per nulla, nelle prime righe della Sacra
Scrittura, leggiamo: «Dio disse: Sia la luce! E
la luce fu» (Genesi 1,3). La parola divina esprime
la persona stessa e l’opera del Creatore.
In questa luce è arduo tradurre quel Logos
che apre il prologo innico del Vangelo di Giovanni.
Goethe, il famoso poeta tedesco, nel
suo Faust fa tentare al protagonista diverse
versioni che cerchino di esprimere le varie iridescenze
di quel vocabolo greco: in tedesco,
certo, è Wort, ossia “parola”, ma è anche Sinn,
“significato” dell’essere e dell’esistere; è Kraft,
“potenza” efficace e creatrice; e alla fine è Tat,
cioè “atto”, evento pieno e perfetto, anzi persona
in Cristo.
L’Evangelista, quindi, tratteggia il
mistero divino, glorioso e trascendente del Figlio
di Dio che è «presso Dio ed è Dio».
C’è, però, una svolta radicale che si manifesta
in un incrocio tra due realtà che la cultura
greca vedeva in opposizione, quasi in collisione
tra loro, così da essere reciprocamente
repellenti. Il Logos diventa sarx, “carne”.
Ora, quest’altro termine greco definisce la fragilità
della creatura, il suo essere finita, caduca,
mortale, legata al tempo e allo spazio.
Ecco,
allora, quello che potremmo chiamare lo
scandalo dell’Incarnazione. Il Logos divino,
perfetto, infinito ed eterno diventa sarx, la
“carne” umana, limitata, votata alla sequenza
temporale, imprigionata nello spazio. Gesù,
il Figlio di Dio, sarà appunto vincolato a
una cultura, a una lingua, a un modo di vivere
sociale, a un territorio e a un’epoca storica
circoscritta. La sua realtà profonda di Logos
divino è quasi compressa e umiliata fino
all’esperienza della morte, che è per eccellenza
la nostra carta d’identità di creature racchiuse
in un perimetro di tempo e spazio.
È ciò che esprimeva san Paolo in un inno
incastonato nella Lettera ai Filippesi: «Cristo
Gesù, pur essendo di natura divina..., svuotò
sé stesso, assumendo la condizione di
servo, divenendo come gli uomini e presentandosi
in forma umana; umiliò sé stesso facendosi
obbediente fino alla morte e alla
morte di croce» (2,6-8). Ed è ciò che a suo modo
ha cantato anche uno scrittore agnostico
come l’argentino Jorge Luis Borges in una
sua poesia pubblicata nel 1969 e intitolata appunto
Giovanni 1,14: «Io che sono l’È, il Fu e
il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è
tempo successivo... / Vissi prigioniero di un
corpo e di un’umile anima. / Appresi la veglia,
il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, /
i tardi labirinti della mente, l’amicizia degli
uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. /
Fui amato, compreso, esaltato e appeso a
una croce». Un antico testo apocrifo cristiano
metteva in bocca a Gesù queste parole: «Io, il
Signore, divenni piccolo per potervi ricondurre
in alto, donde siete caduti».