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venerdì 28 marzo 2025
 

In quei giorni, Dio era abruzzese

Abbiamo vissuto, un mese fa, pagine di tragedia, di solidarietà, di emozione… Una neve mai ricordata che in alcuni paesi di montagna ha superato i due metri. Una settimana di buio, d’isolamento… Poi, inaspettato, sleale, il risveglio del mostro nelle profondità della terra. E ora, la pioggia torrenziale che ha provocato allagamenti, frane, nuovi isolamenti.

Io non c’ero. Ma sono sicuro che, quando le ruspe e i camion dei militari hanno raggiunto le piazzole dei piccoli borghi appenninici, dopo più di dieci giorni d’isolamento, si sia ripetuta, in qualche modo, l’esultanza che provarono i nostri padri all’arrivo degli Alleati, nel 1944. Mi hanno raccontato che un montanaro dalla barba fluente, in una frazione di Isola del Gran Sasso, per nascondere la commozione, abbia chiesto ai soldati: «Avete portato il vino?».

Proprio in quei giorni terribili di gennaio, un quotidiano locale titolava a grandi caratteri: «Dio non è abruzzese!». Un titolo forse inopportuno, dissacratorio, ma molto efficace. A tutti sembrava, infatti, che la sorte si fosse accanita sulla nostra regione, oltre che sul Centro Italia.

Ma io rispondo: Non è vero. In quei giorni, Dio era più che mai abruzzese. Il Dio crocifisso io l’ho visto a Rigopiano, a Campofelice… nelle donne che piangevano all’arrivo dei soccorsi… nei vecchi dallo sguardo perso, seduti attorno alle stufe… No, non siamo vittimisti. Non siamo piagnoni. Si ha l’impressione che in Italia c’è chi non si rende conto di quel che è successo da noi. Qualcuno ha detto: com’è possibile che l’Abruzzo, regione montana, sia andata in tilt per un metro e mezzo di neve. Dov’erano le ruspe e le turbine? È come se a Rimini non ci fossero gli ombrelloni. Eppure, l’abbiamo visto, le stesse turbine venute dal Trentino sono rimaste bloccate nel tentativo di raggiungere Rigopiano.

D’accordo. Alcuni nostri sindaci non sono sembrati all’altezza. Ma erano isolati dal mondo e senza mezzi adeguati. E molti si trovavano per la prima volta a vivere un’esperienza come questa. In compenso, tutta l’Italia è venuta in nostro aiuto e ha avuto modo di ammirare la bontà, la gratitudine, l’ostinazione della nostra gente. E, per giustizia, non dimentichiamolo! gli abruzzesi non sono rimasti con le mani in mano… Nei paesi della fascia collinare e submontana, i più attivi si sono dati da fare per ricomporre il quadro della situazione, con attenzione alle case solitarie, agli anziani, ai singoli. Hanno telefonato ai Vigili del fuoco quando notavano che gli abitanti di una casa isolata non rispondevano al telefono da più giorni o che, guardando a distanza, il fumo non usciva dal camino. Si è mossa una nobile catena di solidarietà che partiva dal basso, che non attendeva lo Stato.

Ma, in Abruzzo, è successo qualcosa di troppo grosso: l’incontro congiunturale fra una neve storica e un terremoto che ormai ci sta logorando da troppo tempo, togliendoci la forza di reagire. Come bene ha detto Fabrizio Curcio, capo della Protezione civile, in un’intervista: «Nel Centro Italia, da alcuni mesi, la gente sta vivendo una situazione da film dell’orrore: oltre 45 mila scosse dal 24 agosto».

Di fronte a tutto questo, sono sempre possibili due filosofie di lettura: quella della critica e quella della valorizzazione. Io preferisco la seconda. Sarebbe iniquo non pensare alla dedizione, spesso eroica, di quanti, nel gennaio scorso, ci hanno aiutato. Come sarebbe ingiusto ignorare tutto lo sforzo che un popolo – quello abruzzese – ha fatto e sta facendo per reagire a questo annus terribilis. Come è impossibile non denigrare, in qualche caso, l’inettitudine, l’insensibilità, la mancanza di fantasia di alcuni burocrati.

Il bene, in ogni caso, a mio parere, è stato più forte. Soprattutto, in quei giorni di gennaio, abbiamo compreso cosa è l’uomo, cosa c’è veramente dentro di noi. I soccorritori che a Rigopiano scavavano giorno e notte, anche a rischio della vita, lo facevano con serenità e modestia, non per dovere ma come inseguendo qualcosa d’immenso. E quando estraevano dalle macerie una persona viva e la gente applaudiva e piangeva: cos’era quello se non amore per la vita, considerata come qualcosa di sacro? Ne sono convinto. Le persone, in fondo al cuore, hanno molto di più della struttura economica di Marx, della tensione auto-affermativa di Adler, della libido freudiana, del dominio dei meglio dotati di Darwin, hanno una incontenibile nostalgia d’infinito.

LUCIANO VERDONE

Grazie per questa lettera, che ci fa rifl ettere sulla tragedia che ha colpito non solo l’Abruzzo, ma anche varie zone del Centro Italia, dal Lazio, alle Marche, all’Umbria. Dapprima con un terremoto devastante iniziato il 24 agosto, poi con una serie di ulteriori scosse, le più forti delle quali si sono verificate il 26 e 30 ottobre e poi il 18 gennaio. A tutto questo si è aggiunta una nevicata eccezionale anche per questi territori montani, che ha portato a tragedie come quella dell’hotel Rigopiano. I danni complessivi causati dal sisma ammontano fino a oggi a 23 miliardi e 530 milioni di euro.

Al di là delle cause naturali, non è mancata prevenzione. Come ha detto monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti, «ciò che conta è riscoprire la solidarietà non come l’emozione di un momento, ma come un impegno anche strutturale che metta mano a quelle priorità che per troppo tempo sono state sottaciute». Ora, ha aggiunto, «occorre una gestione accorta per evitare infiltrazioni e speculazioni. Sono necessarie attenzioni che privilegino la ripresa dell’economia per territori già segnati dallo spopolamento. Per invertire la tendenza è necessario uno studio attento di quello che è il nostro territorio per rigenerarlo, pena la sua dissoluzione».

Ma più di tutto ciò che conta e che non dobbiamo dimenticare è, come scrivi tu, caro Luciano, la forza del bene, la forza della vita, l’infinito che c’è nel cuore di ciascuno. Ancora una volta tutto questo è emerso nel contesto così tragico in cui la gente si è trovata. A me non è piaciuto per niente il titolo «Dio non è abruzzese!». Non tanto perché aveva un che di dissacratorio, ma per il sottofondo negativo, deprimente, pessimista. Hai ragione tu, Luciano: Dio era abruzzese proprio in quei giorni, il Dio crocifisso, il Dio di Gesù Cristo. Egli è sempre lì quando una persona soffre, si sente sola e abbandonata, come Cristo sulla croce. Egli è lì nell’amore che non viene meno, che lotta e si impegna, che si fa vicino e consola.

Prendendo ancora a prestito le parole di monsignor Pompili, possiamo dire che è il nostro stesso essere Chiesa che «ci chiama a farci vicini, ad accompagnare il processo di elaborazione di quanto accaduto: perdita delle persone care, della casa, delle chiese, dei paesi, dell’identità». Nella realtà terribile di quello che è capitato «c’è da riscoprire quella che è la nostra condizione di uomini e di donne, segnati dalla fragilità e dall’imprevisto di quello che non avresti mai immaginato». Dai grandi colpi della vita, ha concluso monsignor Pompili, «s’impara sempre qualcosa di utile: ci costringono ad andare oltre la superficialità che spesso ci caratterizza. Il sisma ci ha fatto riflettere sull’urgenza di tornare a riconoscere che dell’altro abbiamo bisogno, che siamo interdipendenti».


02 marzo 2017

 
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