Sfollati in Iraq (Reuters).
Ormai tutti i giornali hanno parlato del Rapporto pubblicato dalla Missione Onu in Iraq e dall’Alto commissariato Onu per i Diritti Umani sulle atrocità commesse direttamente dall'Isis e sui patimenti generati dalla guerra che gli islamisti hanno portato dalla Siria all'Iraq. Le cifre, quindi, sono note: dal gennaio 2014 all'ottobre 2015, quasi 19 mila civili sono stati uccisi e oltre 36 mila sono stati feriti. "Queste cifre", ha peraltro commentato Zeid Raad al-Hussein, commissario Onu ai diritti Umani, "contano solo coloro che sono stati uccisi da azioni violente, non chi è morto per mancanza di acqua, cibo o servizi medici". E poiché gli sfollati iracheni sono 3,2 milioni, si può capire quante vittime questa voce possa aggiungere al computo finale. Il Rapporto ammette di non essere riuscito a contarle, facendo implicitamente capire che potrebbero essere moltissime.
Continua quindi il martirio dell'Iraq e continua l'ipocrisia internazionale a proposito dell'Isis. Tutti, dagli analisti strategici ai semplici cittadini iracheni, sanno che senza esercito sul campo la guerra, vera o presunta, contro l'Isis durerà ancora molto tempo. Tutti, di fronte a questa constatazione, fanno spallucce e rispondono che mettere gli stivali sul terreno costerebbe troppo in termini di vite umane e denaro. Il che, molto semplicemente, vuol dire: lasciamo che quel prezzo lo paghino gli altri, gli iracheni in particolare. Col tempo l'Isis sparirà, i guerriglieri si stuferanno, finiranno i soldi e le munizioni. Insomma, qualcosa succederà. Non c'è nessuna fretta e nessun bisogno di impegnarsi di più.
E' difficile immaginare, per Paesi come gli Usa, l'Arabia Saudita, la Russia, la Turchia, l'Iran, che investono somme enormi di volta in volta nella produzione, nella vendita e nell'acquisto di armamenti, quale colossale sacrificio potrebbe essere impiegare un po' di quelle e armi e degli eserciti a cui sono affidate per placare quelle belve assetate di sangue. Ma così è, anche se non ci pare.
Nel frattempo, seguendo tutto l'itinerario predisposto o comunque favorito dai nostri meravigliosi interventi per il progresso e la democrazia, l'Iraq sprofonda. La spallata dell'Isis ha reso ancor più radicale la spaccatura tra etnie e confessioni diverse e sempre più vicina quella tripartizione (un pezzo ai sunniti, uno agli sciiti, uno ai curdi) che peraltro era stata lungamente teorizzata da molti pensatoi politici e militari americani ai tempi dell'invasione del 2003. Quasi esattamente gli stessi che ora la teorizzano per la Siria. Con l'inevitabile risultato, visto che nascono o dovrebbero nascere Stati sempre più piccoli e con una base etnico-religiosa sempre più accentuata, di incrementare il settarismo etnico o religioso e di favorire per il futuro nuovi conflitti, nuove persecuzioni, la scomparsa delle minoranze. Si allontana sempre più l'obiettivo, peraltro mai stato troppo vicino, di avere Stati in cui i diritti e i doveri non si misurano sulla base della fede o del gruppo ma della cittadinanza.
Ma c'è di più. In questo contesto (a volte li attacchiamo, altre volte non li difendiamo), davvero pensiamo che i nostri valori diventino più popolari in Medio Oriente? O non succede, al contrario, che li stiamo rendendo sempre meno comprensibili, accettabili e sopportabili?
Pensiamo all'Iraq. Dal 1990 al 2003 l'abbiamo sottoposto a un embargo che non ha per nulla scalfito il potere del dittatore Saddam Hussein ma, invece, ha provocato 500 mila morti, in buona parte minori, per mancanza di medicine o attrezzature mediche appunto "embargate". Cifra che uscì da un Rapporto Unicef mai smentito e al contrario direttamente confermato da Madeleine Albright, più avanti segretario di Stato ma in quel periodo ambasciatore Usa all'Onu, anche in interviste televisive.
L'embargo fu sospeso con l'invasione del 2003: venne la guerra e un'ondata di violenze che durò poi anni. Si trattava di impedire all'Iraq di usare un vasto arsenale di armi chimiche, dissero George Bush e Tony Blair, e di portare pace e giustizia cacciando Saddam Hussein. Il risultato immediato furono altri 500 mila morti, come ormai confermato da una lunga serie di studi, il più recente dei quali è stato pubblicato su Plos Medicine per opera di un gruppo di ricercatori americani.
Sconfitta Al Qaeda e il movimento insurrezionale che a essa si ispirava, l'Iraq, a quel punto guidato da Governi a maggioranza sciita sempre più vicini all'Iran, ha dovuto affrontare uno stillicidio di attentati che colpivano alla cieca, soprattutto nel governatorato di Baghdad (che largamente coincide con il territorio della capitale) e quasi sempre, guarda caso, nei quartieri sciiti. Immaginate di vivere in un posto dove c'è una strage del Bataclan a settimana: ecco Baghdad dal 2010 in avanti. E poi l'Isis. E' più che ora di chiederci: perché dovrebbero credere nei valori che noi proponiamo? E smetterla di stupirci se molti, in Medio Oriente, pensano che con un kalashnikov in mano la vita ha più senso.