La prassi di parlare in parabole di Gesù era in uso in tutto il mondo antico e nella stessa Bibbia. Noto è l'apolodo di Iotam, una critica al potere con protagonisti vegetali personificati.
Tutti sanno che Gesù ha amato interloquire col suo pubblico attraverso le parabole, tant’è vero che, in modo radicale e fin eccessivo, l’evangelista Matteo affermava che egli «parlava alle folle solo in parabole» (13,34). Questa sua prassi non era esclusiva perché già nell’Antico Testamento, come in tutta l’antichità, ci imbattiamo in questo genere letterario che spesso attingeva alla natura vegetale e animale.
Noi vorremmo proporre ora un esempio anticotestamentario che adotta l’uso dei simboli naturali per sviluppare una lezione morale. In questo caso è il tema del potere, che è sempre una calamita pronta ad attirare le persone. Come paradossalmente scriveva nel suo celebre Il Paradiso perduto (1667) il poeta inglese John Milton, «è meglio regnare all’inferno che servire in cielo».
A narrare la parabola – in ebraico mashal – è un certo Iotam, fratello di Abimelek: quest’ultimo s’era messo in testa di diventare re della città ebraica di Sichem e, per raggiungere il suo scopo, aveva iniziato con un bagno di sangue, eliminando tutto il suo clan familiare, una settantina di persone, considerate come pericolosi pretendenti o concorrenti. Una di queste s’era, però, salvata nascondendosi: era appunto il fratello minore Iotam. Egli sale sul monte che diverrà sacro ai Samaritani, il Garizim, e urla il suo apologo, così da mettere in guardia i suoi concittadini di Sichem sull’abisso verso il quale stanno incamminandosi. A valle, infatti, è riunita un’assemblea di capi di Sichem e della regione che stanno per proclamare Abimelek come loro sovrano.
Come accade nelle favole, protagonisti sono o gli animali o i vegetali personificati che diventano maestri degli umani insipienti. Nel nostro caso entrano in scena innanzitutto i tre alberi tipici del paesaggio mediterraneo: l’ulivo, il fico, la vite (si legga il testo integrale in Giudici 9,7-21). La delegazione delle altre piante si reca da questi tre «colleghi» per invitarli ad assumere la carica di re degli alberi. Ma la risposta è negativa: essi sono lieti di essere utili agli altri col loro olio o col frutto dolce o col vino inebriante e non vogliono lasciarsi prendere da manie di dominio, librandosi sopra le altre piante, gloriandosi e vivendo riveriti e serviti. Di fronte a questi rifiuti la delegazione si rassegna e cede al tentativo di coinvolgere il rovo, il quale accetta subito con piacere, dato che non ha nessun impegno se non quello di ramificarsi su altri vegetali vivendo da parassita e producendo solo spine. E subito il rovo rivela la tipica arroganza del potere. Arido com’è, s’immagina già frondoso ed elevato e invita le altre piante a piegarsi sotto la sua ombra. E prosegue con un’altra battuta da sbruffone: se non vi piegherete a me, ebbene «esca dal rovo un fuoco e divori i cedri del Libano». Detto in altri termini, facendo il gradasso, il rovo minaccia persino i possenti e maestosi cedri del Libano. Iotam applica la morale della parabola alla situazione politica di quel momento storico. Il lettore potrà liberamente applicarla alla classe politica a lui contemporanea, ricordando comunque che un po’ di anelito verso il potere prevaricatore è in tutti noi. Il nostro scrittore Luciano De Crescenzo (1928-2019) ci ricordava mediante il suo noto personaggio Bellavista che «il potere non sazia, anzi, è come la droga: richiede sempre dosi maggiori».