Un aereo militare degli Stati Uniti sorvola la zona di mare vicina al Vesuvio, durante l'ultima eruzione, del marzo 1944.
Ci sono 700 mila persone circa, in Italia, che rischiano di morire improvvisamente, in modo violento, senza avere neanche il tempo di difendersi. Eppure, questi uomini, donne, bambini, anziani, vivono come se la minaccia incombente non esistesse. Non per sprezzo del pericolo, e neanche perché ignorino la loro quotidianità così a rischio. Anzi, conoscono perfettamente le cause eventuali della loro morte e sono sufficientemente istruite su come comportarsi se dovesse verificarsi ciò che tutti temono ma, ugualmente, ragionano usando l’ignavia come strumento principale della propria esistenza.
Eppure, c’è ancora qualcuno che ricorda l’ultima volta che questo pericolo fece fuggire tutti coloro si trovavano da quelle parti. Quelle parti sono le campagne attorno al Vesuvio, un vulcano attivo, una bomba a orologeria pronta a esplodere da un momento all'altro. E chi ricorda narra dell’ultima volta in cui il vulcano alle porte di Napoli si fece sentire.
Il Vesuvio aveva iniziato in modo quasi impercettibile fin dall’anno prima, il 1943, a dare segnali di vita, progressivamente sempre più decisi, fino al 18 marzo 1944, quando la colata lavica mostrò tutta la sua furia distruttiva e per sei giorni non diede tregua. I paesi più danneggiati dalle esplosioni e dalla lava furono furono Angri, Cava, Cercola, Massa di Somma, Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Pagani, Poggiomarino, Pompei, San Sebastiano al Vesuvio, paese più colpito, Scafati e Terzigno. Il 23, mentre ancora le popolazioni dei vari paesi cercano scampo, il Vesuvio comincia a emettere solo, si fa per dire, cenere.
Non bastassero le rovine della guerra mondiale, ci si mette anche il Vesuvio a rendere terribile al vita di una parte di popolazione campana. Napoli, intanto, assiste col fiato sospeso, per poi tirare un sospiro di sollievo. La direzione del vento porta le ceneri sparse in aria lontano dalla città. La cosa viene accolta dalle autorità militari americane e italiane come una piccola liberazione. Gli ultimi sussulti del Vesuvio, gli ultimi sbuffi, sono quelli del pomeriggio del 29 marzo. Poi, da quel giorno del 1944, basta, nulla di nulla e il Vesuvio riposa da settant’anni. Gli anni passano e troppi pensano che quel vulcano stia buono perché senza più forza per mostrarsi. Invece, è vero il contrario.
Il silenzio del Vesuvio è quanto di più temibile ci possa essere. Ogni giorno di calma piatta è un giorno in più verso l’esplosione e il Vesuvio, quando si sveglierà, potrebbe divenire devastante. Non basta avere Pompei a pochi passi, non basta il racconto di chi visse settant’anni fa quella traumatica esperienza, non bastano le annuali esercitazioni delle popolazioni dei paesi alle falde del vulcano. Né bastano gli ammonimenti dei vulcanologi. Fatalisti, rassegnati, superficiali, tutti assieme, in 700 mila vivono lì, in attesa dell’ecatombe. Altri, assai più stupidi, preferiscono rivolgere negli stadi italiani peana al Vesuvio affinché faccia il proprio dovere di vulcano, sommergendo Napoli e i napoletani.
Bisognerebbe ricordare tutti i giorni le parole di uno studio pubblicato quattro anni fa da Giuseppe Mastrolorenzo e Lucia Pappalardo, ricercatori dell’Osservatorio vesuviano Ingv, e dei biologi dell’Università di Napoli Federico II, Pierpaolo Petrone e Fabio Guarino: «Gli abitanti di Pompei non morirono soffocati dalle ceneri del Vesuvio, ma bruciati all’istante a una temperatura di circa 300 gradi». Forse, però, non basterebbero neanche queste parole a convincere i 700 mila ad andarsene al più presto.