Quando si sta al vertice di un ministero come quello della Giustizia, e cioè si mette la faccia sull’articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge…»), la forma è sostanza. Per questo appare persino secondario il fatto che - come sembra - l’intervento del ministro Cancellieri sul caso di Giulia Ligresti non abbia sortito alcun effetto diretto.
Per gettare un'ombra sulla credibilità delle istituzioni basta dar adito al sospetto, più acconcio a una monarchia borbonica che a una democrazia europea, che in Italia i diritti si debbano chiedere come favori, scorciando la burocrazia per le corsie preferenziali delle amicizie altolocate, anziché passando alla luce del sole per i canali competenti, a tutti accessibili per la medesima istituzionale, chiara, retta via.
Basta e avanza l’impressione conseguente, fosse anche infondata, che a muovere gli ingranaggi delle istituzioni sia non già la trasparenza delle regole del gioco ma il familismo amorale che serve ad aggirarle. Basta il sospetto che a queste latitudini – gravate da troppi conflitti d’interesse anticamera di corruzioni grandi e piccole - lo Stato sia o semplicemente appaia forte con i deboli e debole con i forti. Perché il solo sospetto è già un alibi regalato ai troppi che, nel piccolo del quotidiano, saltano la fila affermando che non di prevaricazione si tratta, ma di necessità dettate dall'andazzo generale.
Se aggiungiamo il fatto che i giudizi politici che si susseguono sul caso paiono ispirati più che al criterio della correttezza istituzionale a quello della convenienza politica, la frittata è completa.