«B. è colpevole». «No, B. è innocente». «Le sentenze vanno rispettate». «No, quella del processo Mediaset no». Il dibattito che si rinnova ogni sera in Tv , sulla cosiddetta “agibilità politica” (monstrum linguistico nato chissà come), ci sta precipitando in un palcoscenico in cui le cose stanno come pare a ciascuno, senza che ci sia, almeno in apparenza, un centro di gravità cui ancorarsi.
Lo stile bipolare esasperato nel dibattito dei talk show televisivi ripartiti di gran carriera, si proietta nelle discussioni tra privati, sulla spiaggia, sul lavoro: visioni inconciliabili si scontrano in un dramma pirandelliano al cubo, in cui si può dire tutto e il contrario di tutto: così è, se vi pare. La vicenda reale, politica e storica di Silvio B. si frammenta: uno, nessuno, centomila, Silvio B. Come un Vitangelo Moscarda post litteram, è - a seconda del punto di vista - un innocente perseguitato o un delinquente certificato, l’uno reale per gli uni, l’altro reale per gli altri.
Resta da chiedersi: è davvero così? L’analogia pirandelliana si ferma qui o prosegue sino al dissolvimento, pirandellianamente inevitabile, di ogni possibilità di farsi un’idea?
Dobbiamo rassegnarci a un teatro dell’assurdo in cui sia impossibile distinguere, quasi che la verità potesse essere tutto e il suo contrario, secondo che la si guardi dal lato della signora Frola o da quello del signor Ponza come nella novella di Pirandello?
La risposta è: no. Lo Stato italiano, finché resta in vigore com’è, ha delle regole chiare e scritte nella Costituzione, che mettono dei paletti. C’è un organo preposto a stabilire se uno sia colpevole o innocente: è la magistratura ordinaria. Ci sono tre gradi di giudizio, per dare, già all’interno del sistema, la possibilità di correggere una sentenza in fatto o in diritto, dopodiché le regole del gioco dicono che quando una sentenza supera, confermata, il vaglio del terzo grado – la Cassazione -, passa in giudicato, diventa definitiva. Per lo Stato italiano quella è la verità. Finché resta in vigore la Costituzione repubblicana, la sentenza definitiva è il punto fermo, (tanto è vero che nessuno può essere processato due volte per lo stesso fatto-reato). La sentenza definitiva è il fatto da cui partire per ancorarvi proprie le opinioni: le sue motivazioni sono pubbliche, rintracciabili da qualunque privato cittadino. Discutere di una sentenza a prescindere dai suoi contenuti è teatro, è letteratura, è finzione, talora anche malafede. Negarne la legittimità, è sabotare le regole del gioco, è provare a legittimare l’arbitrio. Volendo esasperare con un esempio, sarebbe come discutere di sistema solare dicendo: «Io credo che la terra sia piatta e che il sole vi giri attorno», senza tenere conto della comunità scientifica e dei suoi risultati.