Di fronte a una madre che uccide le sue tre figlie e poi prova a suicidarsi c’è poco da dire. Si resta attoniti, sgomenti e smarriti. Anche per questo abbiamo lasciato passare del tempo prima di tornare sul fattaccio di Lecco. Lo facciamo ora, sottovoce, al terzo giorno dopo la tragedia, dopo che molte parole sono state disperse e il clamore si è attenuato.
La strage famigliare che all’alba di domenica 9 marzo si è consumata alla periferia della città lariana non è la prima e temiamo che non sia l’ultima (anche se lo vorremmo con tutto il nostro cuore). È l’ennesimo dramma della solitudine, della disperazione e della follia che ci attraversa e che riempie inesorabilmente ore e ore di servizi televisivi, oltre a pagine e pagine di giornali.
Vorremmo sapere, capire e comprendere il motivo di un gesto tanto estremo quanto irrazionale, ma non possiamo. Perché non troviamo
un motivo plausibile, perché ogni possibile giustificazione ci sembra
insufficiente, perché in fondo un evento come questo scopre quella parte
di coscienza sporca che sentiamo dentro di noi e che spesso ci spinge
all’indifferenza verso la sofferenza altrui.
Forse anche per questa
vulnerabilità, siamo sensibili ai servizi di cronaca che, puntando
telecamere, fari e microfoni sul volto e sotto il naso di chi ha
vissuto una tragedia da vicino, saccheggiano a piene mani non soltanto i
sentimenti dei diretti interessati, ma anche quelli di tutti noi che,
come un pubblico con gli occhi spalancati, assistiamo a racconti e
ricostruzioni che provocano spesso un cinico effetto di messa in scena.
Ci
sono immagini che avremmo voluto non vedere, come i primissimi piani
sui parenti che accorrono sul luogo del triplice delitto urlando tutta
la loro incredula disperazione o la solerte giornalista di una testata
televisiva di grande ascolto che intervista a lungo un ragazzino che
conosceva la famiglia, tampinandolo per le vie del quartiere e
chiedendogli se a lui la madre omicida fosse sembrata una donna normale o
quale ricordo conserva delle vittime. E poi le interviste
strappalacrime ai parenti, agli amici, ai conoscenti, alle maestre, ai
compagni delle ragazze…
Gli assalti "giornalistici" calpestano la
deontologia professionale sancita non solo dalla Carta di Treviso e
dalla Carta dei Doveri ma anche dalla legge e, prima ancora, negano il
buon senso di cui ogni persona dovrebbe essere dotata. Non aggiungono
nulla ai contenuti informativi, speculano sull’emotività,
spettacolarizzano oltremodo il dolore. E c’è pure chi si vanta dello
spazio dedicato al fattaccio.
È una continua violazione dell’intimità, come lo
è andare a frugare nei profili Facebook – sul cui essere di pubblico
dominio ci sarebbe molto da discutere – per rilanciare affetti post mortem che rendono ancora più agghiacciante l’accaduto e provocano uno shock
emotivo tanto intenso quanto velocemente archiviabile.
C’è un confine
sottile ma nettissimo fra il diritto di cronaca - che in molti casi è
anche un dovere - e la speculazione giornalistica, che spesso diventa un
sciacallaggio dei sentimenti.
Proviamo a spegnere i riflettori delle
telecamere onnivore e, al loro posto, ad accendere le fiammelle della
speranza, della prossimità e dell’ascolto.