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martedì 22 aprile 2025
 
Le regole del gioco Aggiornamenti rss Elisa Chiari
Giornalista

Ma davvero un processo lungo è sempre un'ingiustizia?

Che sia condanna o assoluzione, quando un processo noto finisce, sono in molti a concludere che, se il processo è stato lungo, il tempo trascorso si traduce necessariamente in un'ingiustizia. Che alla fine l'unica certezza è la giustizia italiana che non funziona.

Ma è davvero così? Proviamo a ragionarci. Premesso che certamente un processo che dura a lungo produce sofferenza in vittime e indiziati perché lascia vite sospese, è anche vero che l'alternativa è un processo che dura poco, ma che, non lo calcoliamo mai, potrebbe anche sbagliare di più.

Vediamo perché.
Quando, da persone comuni, vediamo le sentenze riformarsi e cambiare verso da un grado di giudizio all'altro restiamo spiazzati da un senso di incertezza e ci diciamo che questo accade perché il nostro sistema funziona male, che questa è una patologia, un sinonimo di giustizia malata. Quando chiediamo conto di questo a un avvocato o a un magistrato, invece, ci rispondono con naturalezza che questo fa parte della fisiologia, cioè del funzionamento naturale del corpo di un sistema giudiziario a tre gradi come il nostro: un sistema fatto per autocorreggere l'eventuale errore dall'interno.

La risposta ci spiazza perché mette in crisi la nostra idea un po' semplicistica di certezza del diritto. E ci induce a pensare che l'erba del vicino, di solito quella dei processi americani di cui abbiamo un vago sentore dalla letteratura e dalla cinematografia che ci viene in casa, sia più verde: processi certamente più brevi ci sembrano anche più certi e più giusti.

La risposta dei nostri magistrati e avvocati, invece, ci dice tra le righe che la nostra percezione di cittadini potrebbe essere distorta da un'illusione ottica: i sistemi anglosassoni funzionano infatti con un solo grado e con rari appelli, consentiti solo in certi limitati casi alle corti superiori. E il verdetto nel penale, per esempio nei casi di omicidio, viene da una giuria popolare che sentenzia "colpevole" o "innocente": senza necessità di motivare il verdetto. Se finisci assolto ritorni uomo libero, se finisci condannato sconti la tua pena, fino alla pena di morte dove prevista (in questo caso appellarsi è generalmente consentito, anche se non tutti gli appelli vengono ammessi).

La mancanza di appello, o la sua rarità, e la mancanza di motivazione non ci garantiscono che quel sistema sbagli di meno, fanno sì che, nella stragrande maggioranza dei casi, non ci sia occasione di verificare se altri giudici, in quei sistemi, avrebbero valutato diversamente il quadro probatorio dello stesso caso, se il ragionamento che ha sostenuto la decisione sia stato più o meno logico, semplicemente perché non abbiamo la controprova.

Mentre il sistema italiano prevede che ogni decisione sia motivata per iscritto e con dovizia di particolari, che in Cassazione si possa sempre ricorrere, e anche il processo d'appello è la regola, almeno nei casi gravi: è il sistema stesso a prevedere cioè un meccanismo interno di verifiche che certo complicano la macchina, fino a ingolfarla, e che allungano i tempi, ma che probabilmente riducono anche il margine di errore.

Di certo c'è che, In tutti i sistemi democratici, il processo è fatto di sostanza (fatti da ricostruire) e di forma (la procedura cioè il sistema di regole valide per lo svolgimento di indagini e processi)

Se la bilancia pende troppo dal lato della sostanza, si rischia di deviare verso il processo sommario, senza garanzie per gli imputati, tipico dei totalitarismi, se pende troppo dal lato della forma si rischia peccare di formalismo, di trasformare le garanzie in cavilli cui attaccarsi per farla franca, lasciando le vittime al torto subìto.

Va da sé che più si pende verso il sostanzialismo più si rischia di condannare innocenti, più si pende verso il formalismo più si rischia di assolvere colpevoli. Sono entrambe ingiustizie, che agli estremi finiscono per toccarsi sancendo la prevaricazione della legge del più forte sul diritto. Cambia poco che sia la prevaricazione dell'apparato sul sospettato o del criminale sulla vittima: una democrazia pluralista non può accettare, al di là di un margine fisiologico di errore, né l'una né l'altra senza andare all'aria.

Ogni società, che voglia restare nel solco della democrazia, ha perciò necessità di cercare il proprio equilibrio verso il centro di questi due estremi. Quanto delicato sia trovarlo lo si capisce ogni volta che si prova a riformare, perché il sistema perfetto non esiste, né è semplice pensare di trapiantare un sistema da un Paese all'altro, perché spesso il sistema che si consolida è figlio di una storia e di una tradizione giuridica che sarebbe traumatico dal punto di vista sociale, oltreché complicatissimo tecnicamente, azzerare di colpo. 


13 dicembre 2015

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