E’ possibile un’”evasione digitale” oltre sbarre del carcere?
Bisognerebbe chiederlo ai detenuti della casa circondariale di Padova che hanno iniziato la loro “fuga” dalla noia quotidiana frequentando un corso di cortometraggio ma poi ci hanno preso gusto e hanno iniziato un percorso umano ancor prima che artistico che li ha portati a realizzare “A tempo debito”, un documentario che racconta la vita all’interno del carcere preventivo.
Quindici detenuti di sette nazionalità diverse in attesa di giudizio hanno raccontato per immagini l’incertezza del futuro e la lontananza dagli affetti.
La casa di produzione padovana JengaFilm, dopo aver realizzato il cortometraggio “Coffee, Sugar and Cigarettes”, ha scelto di seguire questo gruppo di persone detenute nell’avventura di riuscire a produrre un film vero e proprio e di poter sbarcare nei cinema. Per sostenere economicamente tutta l’operazione la Jenga Film ha avviato una campagna di fundraising e ha dato concretezza al sogno tanto desiderato.
Il regista dell’opera, Christian Cinetto, è stato inizialmente provocato da una frase di Goethe: “Noi non conosciamo le persone quando vengono da noi dobbiamo andare noi da loro per sapere quel che sono” e ha poi cercato cercare di entrare in relazione con uomini che noi siamo abituati a tenere lontani, che spesso temiamo o che giudichiamo.
Il resto l’hanno fatto la bravura della sua troupe e la potenza dei mezzi digitali sino ad arrivare alla prima cinematografica il 6 marzo al cinema Porto Astra di Padova: una vera e porpria “evasione digitale” e una dimostrazione che, a volte, non servono mezzi straordinari per dar vita ai propri sogni, complici anche i costi resi più abbordabili dall'elettronica.
Non c’è un solo momento di finzione, in questo lungometraggio: è tutto rigorosamente vero. Veri la diffidenza, l’imbarazzo, la chiusura di chi si iscrive al corso per avere qualche cosa da fare. Veri i sentimenti di queste persone, vere le loro vite, vere le loro scelte sbagliate, le loro attese senza scadenza
Un film che suggerisce, però, molte domande: non tanto sul carcere quanto su di noi, che eravamo così convinti, prima, di sapere dove fosse il giusto e dove lo sbagliato.