Le liberalizzazioni “ci hanno reso più poveri”. Le parole del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio sulla deregulation selvaggia del commercio e sui danni del lavoro domenicale sono pienamente condivisibili per chi ha a cuore la vita dei lavoratori nel solco della dottrina sociale della Chiesa. Lo spunto è lo sciopero dei lavoratori dell'outlet di Serravalle, che non si è fermato nemmeno a Pasqua. “In questi giorni – scrive Di Maio sul suo account Facebook – si discute degli orari di lavoro dei dipendenti dei centri commerciali, ed è giusto ricordare che anche i commercianti delle città italiane insieme ai loro dipendenti ormai sono costretti a inseguire questo ritmo forsennato dettato dai megastore. Con l’eliminazione degli orari di chiusura degli esercizi commerciali ad opera di Monti e del Pd, si sono messe in competizione piccole botteghe e grandi centri commerciali, scatenando una concorrenza al ribasso che ha ottenuto come unico risultato lo sfaldamento del nucleo familiare del negoziante e dei dipendenti”.
Secondo Di Maio, “l’effetto sugli incassi è stato praticamente nullo, si sono spalmati gli stessi introiti su 7 giorni. Le liberalizzazioni sfrenate hanno fallito, dovevano essere il volano dell’economia, ci stanno rendendo addirittura più poveri. Non è solo una questione economica. Ma di serenità familiare e di felicità personale”. Spiace constatare che quella dei Cinquestelle sua l'unica voce ad essersi levata in difesa di una questione centrale del nostro tempo. C'è la ragguardevole eccezione del presidente della Regione Toscana Rossi, che ha ricordato come il riposo festivo sia sancito dalla Costituzione, ma in generale persino nel Pd e nella sinistra più estrema (non parliamo del Centrodestra) non si è levato nemmeno un vagito in favore di questo sacrosanto diritto dei lavoratori.
Le parole di Di Maio sono in sintonia con una campagna che la Chiesa e gli economisti di orientamento cattolico (e non solo) stanno combattendo da anni, anche se naturalmente la questione riguarda tutti, anche le persone di orientamento laico, trattandosi di diritti. Stefano Zamagni, pioniere degli studi sul terzo Settore e massimo studioso in Italia di economia sociale, non si stanca di ricordare che dall’inizio dell’epoca della globalizzazione “festa e riposo sono due parole diverse”. “Il riposo”, mi ha spiegato Zamagni in un'intervista di qualche anno fa, “è generalmente accettato persino dalle multinazionali, sempre per gli stessi motivi funzionalistici: il commesso, l’impiegato, l’operaio devono riposarsi. E la festa? La festa, invece, per via delle grandi immigrazioni e del "melting pot" di etnie giunte in Europa, non sempre coincide: "Per il musulmano è il venerdì, per il cattolico è la domenica".
L'economista bolognese è convinto che i due concetti debbano ritornare a sovrapporsi: "La ragione è semplice: fermarsi tutti quanti insieme è garanzia di unità familiare, e quindi di felicità. Ma per essere uniti, si ha bisogno di tempo. Se un padre segue turni di riposo diversi dalla madre, i figli non vedranno mai contemporaneamente i genitori. La casa non è mai piena, è come un albergo, non sono possibili nemmeno le feste di compleanno". Per non parlare della dimensione spirituale della domenica. "Abolire la festa è l’espressione di chi ha una visione puramente materialistica della vita e della società. E tra l’altro nessuno è mai riuscito a dimostrare che tenendo aperto la domenica aumentano i consumi e i fatturati». Non so se Di Maio abbia letto Zamagni o le encicliche sociali. Ma stavolta, come politico, ha il merito di aver sollevato una questione concreta e a ragion veduta. A differenza di quando parla di criminali rumeni o dell'abolizione di vitalizi già aboliti nel 2012.