Sono la mamma di un
ragazzo Down di sedici
anni, che frequenta il secondo
anno di una scuola
superiore a Genova. Ma
l’anno scolastico per mio figlio non è cominciato,
come per tutti, il 14 settembre,
perché non era presente
l’insegnante di sostegno.
Poi, nonostante le numerose
telefonate e lettere (cui
raramente mi è stata data
una risposta), mio figlio
è stato lasciato solo in un
banco, senza materiale didattico,
per più di un mese.
In quel periodo, lui ha cercato
di partecipare alla vita
di classe come ha potuto,
copiando dei testi dai libri
o dandosi i compiti da solo.
Così si è destabilizzato e ha
cominciato a manifestare
ansia, chiusura e comportamenti
non sempre adeguati.
Eppure, è sempre stato
solare, allegro, socievole e
disponibile a lavorare. Purtroppo,
proprio la scuola, il
luogo che dovrebbe essere
deputato all’integrazione,
è stata invece fonte di tanto
malessere. Nell’anno si
sono susseguite tre diverse
insegnanti di sostegno,
con il risultato che il Piano
educativo personalizzato
non è stato ancora definito.
Infine, il 29 marzo scorso,
la scuola mi ha telefonato
per dirmi che dal 1° aprile
sarebbe subentrata un’altra
insegnante di sostegno:
la quarta della serie. Non
credo di dover aggiungere
altro.
NADIA S. – Genova
Se la scuola non è sensibile
alle persone che, più degli
altri, hanno bisogno di assistenza,
vuol dire che fa acqua
da tutte le parti. Se manca
questa attenzione verso i più
svantaggiati, non c’è neppure
per tutto il resto. La scuola
non è semplice fucina dove si
apprendono delle nozioni, ma
forma alla vita gli uomini del
domani. La mancanza di adeguate
risorse per l’assistenza
di alunni con handicap è solo
un alibi. Ciò di cui siamo privi,
prima d’ogni altra cosa, è
un’adeguata coscienza civile.
I disabili non sono né devono
diventare “cittadini invisibili”,
ma essere inclusi a scuola
e nel lavoro, valorizzando la
loro sensibilità e i loro talenti.
«L’inclusione è un moltiplicatore
di forza sociale», come
ha ricordato di recente il presidente
Mattarella.