Ci può essere una vocazione collettiva, una chiamata che non risuona solo nell’orecchio e nel cuore di una persona, ma nella coscienza di un intero popolo? La risposta l’abbiamo in un’intensa e appassionata frase del libro del Deuteronomio: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché il Signore vi ama» (7,7-8). Per scoprire quando questa vocazione sia sbocciata bisogna risalire a un giorno memorabile.
Israele, in marcia dalla schiavitù egiziana verso la terra della libertà, si è accampato ai piedi del Sinai. Ed ecco, attraverso la mediazione di Mosè, la parola del Signore: «Se darete ascolto alla mia voce, voi sarete per me una proprietà particolare per tutti i popoli... Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Esodo 19,5-6). Due sono i contenuti della missione che è affidata al popolo chiamato da Dio. Innanzitutto egli sarà la sua proprietà “esclusiva”: in ebraico c’è, in realtà, un’immagine molto suggestiva espressa attraverso il vocabolo segullah che indica il gregge personale di un pastore, oltre a quello che il padrone gli assegnava da custodire, quindi la porzione più cara e amata.
Il popolo dell’alleanza è, quindi, dedicato completamente al suo Signore che lo considera come la sua eredità più preziosa. La seconda qualità di Israele è quella della consacrazione che lo rende «un regno di sacerdoti» in mezzo a tutti i popoli. Come in Israele la tribù sacerdotale di Levi aveva il compito di proclamare la Parola divina e di riferire a Dio le offerte, le preghiere, le speranze, le sofferenze delle altre undici tribù, così ora tutta la comunità israelitica è il sacerdozio destinato alle nazioni della terra. Sarà essa ad annunziare la parola del Signore e a portare a lui aspirazioni e paure, attese e prove di tutta l’umanità.
Una grande vocazione, quindi, di natura comunitaria che purtroppo non di rado Israele tradirà, ma che non cesserà mai, perché Mosè e i profeti gli ricorderanno sempre: «Tu sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio: egli ti ha scelto per essere il suo popolo particolare tra tutti i popoli che sono sulla terra» (Deuteronomio 7,6). Anche san Paolo ribadirà che gli Israeliti «hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse... e da loro proviene Cristo secondo la carne... Dio non ha ripudiato il suo popolo che egli ha scelto fin da principio» (Romani 9,4-5; 11,2).
Alla voce che genera ogni vocazione deve rispondere la libera risposta umana. È ciò che viene espresso attraverso il verbo ebraico shama‘, “ascoltare”, che punteggia molte pagine bibliche e che è sinonimo di “obbedire”. Si tratta, quindi, di un’adesione intima e non di un mero sentire esterno, è l’esaltazione di un orecchio che non è ostruito da parole vane, per cui non si può essere «ascoltatori smemorati bensì che mettono in pratica», come scriverà san Giacomo nella sua Lettera (1,25).
È per questo che concludiamo con l’appello biblico più caro all’ebreo, lo Shema‘, l’«Ascolta!», che egli recita quotidianamente e che anche per Gesù contiene «il più grande e il primo dei comandamenti» della Bibbia: «Ascolta, Israele! Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Deuteronomio 6,4-5; Matteo 22,37-38).