Gentile don Stefano, l’8 agosto di 25 anni fa ho sposato con rito concordatario mio marito, di origine cinese e di religione buddista, in una chiesa alle porte di Roma con cerimonia celebrata da mio zio sacerdote. Ci eravamo conosciuti mentre lavoravo in Cina e mio marito, pur avendo una carriera avviata come dirigente di un’azienda di telecomunicazioni, ha deciso poi di seguirmi in Italia. I miei genitori lo hanno accolto come un figlio. Hanno semplicemente detto, pur non parlando la stessa lingua, «è un bravo ragazzo e questo basta». Ovviamente, come per tutti i matrimoni, ci sono stati alti e bassi, ma siamo ancora qui. Nasce un primo figlio, che ci lascia alla nascita con un dolore purtroppo ancora oggi incolmabile e poi ,nel 1999, il secondo, battezzato sempre da mio zio. In cuor mio, ho sempre temuto che venisse discriminato e, purtroppo, qualche volta è avvenuto durante l’infanzia, quando vivevamo al Nord.
È sempre stato un bambino curioso, precoce, interessato alle scienze. Ha frequentato il liceo, partecipa a gare nazionali e internazionali in ambito scientifico e ricevuto numerosi riconoscimenti e premi, con una cerchia di amici che gli vogliono bene, ma a causa della discriminazione subita da piccolo non è capace ancora di accettare la sua parte cinese, né di imparare il cinese. Nel 2019, durante il suo quarto viaggio in Cina, scopre finalmente la cultura paterna e riesce in parte a far pace con la sua metà cinese. Nel frattempo si laurea presso l’università di Pisa, frequenta una scuola di eccellenza e a 21 anni inizia il dottorato di ricerca. Un ragazzo tranquillo, con i suoi amici, i suoi studi, le sue abitudini.
A giugno scorso, porta a Pisa la bici che aveva vinto a una delle gare a cui aveva partecipato al liceo. Ero tranquilla perché a Pisa ha vissuto sempre senza problemi. A fine luglio, alle 2 di notte mi giunge una telefonata da mio figlio. È molto provato e spaventato. Mi racconta che dopo una serata a casa di amici, stava rientrando a casa e, sul corso principale, è stato aggredito da un ragazzo, che prima ha tentato di farlo cadere dalla bicicletta e poi lo ha apostrofato con invettive varie. Quando ha provato a reagire rispondendo verbalmente alle offese, questo ragazzo ha provato a colpirlo e alla fine, dopo averlo fatto cadere dalla bici, lo ha derubato della stessa.
Alcuni dei presenti, anziché intervenire, quando poi mio figlio ha provato a chiedere se lo conoscessero (visto che qualcuno aveva chiamato l’aggressore per nome), gli hanno detto di non poterci fare nulla. Da quella notte ho smesso di vivere. Mio figlio non ne parla tanto, ma leggo, nei suoi occhi e nei suoi silenzi, il timore. Mi chiedo perché siamo giunti a questo. Da quando il popolo italiano ha dimenticato il suo passato, le sue radici cristiane per trasformarsi in un popolo arido, gretto, egoista, meschino? Siamo sempre stati un crogiolo di razze, lingue e culture diverse che ci hanno consentito di diventare un Paese ricco di storia e cultura.
Il motivo per cui le scrivo è che vorrei, visto che siamo in piena campagna elettorale, che i nostri rappresentanti al governo ricordassero che le parole da loro pronunciate hanno un peso. Spesso, quelle stesse parole dette per guadagnare consensi possono spingere qualcuno a sentirsi autorizzato ad aggredire le persone perché considerate diverse. È da molto tempo che non mi interessa più la politica. Lascio a chi lo desidera fare giochetti di potere per guadagnare i suoi 15 minuti di notorietà. Quello che mi indigna e soprattutto mi preoccupa è la totale mancanza, consapevole o inconsapevole (cosa questa ancora peggiore), di scrupoli nel giocare con la vita delle persone. I nostri rappresentanti al governo dovrebbero ricordare che l’Italia è sempre più multiculturale, costituita da ragazzi e ragazze nati da coppie miste, o nati in Italia da genitori stranieri e che si considerano italiani a tutti gli effetti o, comunque, da persone che vivono e lavorano in Italia da tantissimi anni e, magari, non hanno neanche più contatti con il Paese di origine. Nel nostro Paese, è secondo lei giusto non sentirsi al sicuro perché considerati “diversi”? E poi diversi da chi? UNA LETTRICE
Appunto, diversi da chi? Ti ringrazio di aver condiviso con la comunità di Famiglia Cristiana la storia di tuo figlio e le angosce che stai patendo per la sua vicenda. Condividere da parte tua e compatire (soffrire insieme) da parte nostra ci aiuta tutti a entrare nella realtà delle cose e vedere la faccenda del razzismo dalla parte giusta, quella di Dio, che ama gli uomini perché creati tutti a sua immagine. Ama persino quelli che, esercitando violenza sui fratelli (e Dio non voglia qualche volta anche in suo nome), negano la presenza del suo volto santo sui volti delle loro vittime Pur continuando io a credere che il nostro popolo non sia nel suo complesso «arido, gretto, egoista e meschino», la vicenda che ha visto protagonista tuo figlio, prima ancora di avere risvolti penali, ci coinvolge come comunità civile e credente. Non occorre scomodare la scienza per dire che il concetto di razza per noi umani è un concetto scientificamente errato (si vedano, ad esempio, i libri del genetista Guido Barbujani “Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo” o, ancor più significativamente, “Sono razzista, ma sto cercando di smettere”).
Facciamo, purtroppo, i conti con forme di ignoranza e pregiudizio da sempre presenti nelle comunità umane, che diventano canali di sfogo della violenza che abita in ogni cuore umano e che, per essere riorientate al bene, richiedono l’artigianale incessante lavoro di formazione in famiglia e a scuola, e, se questo ancora non basta, anche sulla strada. La mancata denuncia dei testimoni che conoscevano per nome l’aggressore fa eco a quanto ci ha raccontato la cronaca in tanti episodi di violenza di queste settimane. Non bisogna però demordere. Occorre, come hai fatto tu, gridare, denunciare, lottare per una società diversa e più inclusiva. Anche con il voto.